NOZIONI PRELIMINARI Flashcards

1
Q

Quante e quali sono le condizioni affinché nasca una societas?

A

Regole di condotta, regole di struttura e principio di effettività

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2
Q

Cos’è l’ordinamento giuridico?

A

Un complesso di regole che disciplina il comportamento che i consociati devono rispettare o dal quale devono astenersi. Per esistere, un’autorità deve far rispettare le regole che lo compongono.

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3
Q

Cosa s’intende per società politica?

A

Una società che ha un fine di tipo generale, in quanto si volge alla soddisfazione di non già uno o più bisogni dei consociati, ma di quello che tutti li precede condizionandone il conseguimento, e che consiste nell’assicurare i presupposti affinché le attività promosse dai bisogni stessi si svolgano in maniera pacifica e ordinata.

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4
Q

Cos’è lo stato?

A

Esso si identifica con una certa comunità di individui (i cittadini di quello Stato, che in quanto tali si qualificano in base alle regole concernenti l’acquisto e la perdita della cittadinanza), stanziata in un certo territorio, sul quale si dispiega la sovranità dello stato, ed è organizzata in base ad un certo sistema di regole, ossia un ordinamento giuidico.

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5
Q

Quando un ordinamento si dice originario?

A

Quando superiorem non recognoscit.

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6
Q

Cosa va considerata e valutata nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti giuridici?

A

La soggezione autonoma o necessaria del singolo alle regole di uno o più ordinamenti.

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7
Q

Cosa enuncia l’articolo 10 della Costituzione?

A

Enuncia il principio per cui l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

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8
Q

Perché è importante l’art. 11 Cost?

A

Esso stabilisce che l’talia consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. Esso è di particolare importanza, in quanto rende ammissibile la sottoposizione dello stato alle regole di un’organizzazione sovranazionale, le cui norma e provvedimenti vincolano l’operatività degli organi dello stato stesso, con una conseguente limitazione della sovranità dello stato (che la Costituzione ammette solo se essa è necessaria all’ottenimento della pace e se anche gli altri stati aderenti all’organizzazione sovranazionale siano sottoposte alle medesime limitazioni della propria sovranità.)

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9
Q

L’Unione Europea e il processo d’integrazione

A

Pag 6-7-8.

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10
Q

Trattato di Roma e le successive modificazioni

A

Pag. 7-8.

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11
Q

Con cosa non va confusa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea?

A

Con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Un trattato internazionale firmato nel 1950 dai paesi aderenti al consiglio d’Europa, il quale predispone un sistema di tutela internazionale dei diritti dell’uomo, offrendo ai singoli soggetti la facoltà di invocare il controllo giudiziario sul rispetto dei loro diritti rivolgendosi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

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12
Q

Cos’è la norma giuridica e perché si definisce tale

A

La norma è ogni regola contenuta in un ordinamento e poiché il sistema di regole da cui è assicurato l’ordine di una società rappresenta il diritto in senso oggettivo di quella società, ciascuna di tali norme si dice giuridica in quanto appartenente allo ius.

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13
Q

Differenza tra norma giuridica e norma morale.

A

La norma morale e la norma giuridica si distinguono anche nel caso in cui contengano lo stesso contenuto. La prima è assoluta, nel senso che ricava la sua validità dal suo contenuto e quindi obbliga solamente l’individuo che, riconoscendone il valore, decide di adeguarvisi, ed è perciò altresì autonoma, nel senso che funge da imperativo solo in quanto la coscienza del singolo spontaneamente ne accetti il comando; la seconda deriva la propria forza vincolante nel fatto di essere imposta da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di una collettività, cosicché anche quando disciplina l’azione del singolo essa si presenta come eteronoma, cioè imposta al singolo da altri, da un’autorità capace di coercizione.

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14
Q

Differenza tra testo e precetto normativo.

A

Di solito la norma è espressione della volontà di un organo investito del potere di elaborare regole destinate ad entrare a far parte dell’ordinamento giuridico (atto normativo) e viene consacrata in un documento normativo. In tal caso occorre non confondere la formulazione concreta dell’atto di esercizio del potere normativo, ossia il testo, nel caso di una disposizione normativa scritta, con il precetto, ossia il significato di quel testo; l’individuazione del significato del testo normativo, e dunque del precetto, della regola che esso pone, è il risultato di un’operazione di interpretazione del testo medesimo.

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15
Q

Differenza tra norma giuridica e legge

A

Per un verso la legge, nel senso tecnico definito dalla Carta costituzionale e dall’art. 2 delle Disposizioni sulla legge in generale, poste in premessa al codice civile, è un certo e definito tipo di atto normativo scritto, che nel nostro ordinamento è elaborato da organi a ciò competenti secondo le procedure stabilite dalla Carta costituzionale; per altro verso ogni ordinamento conosce regole giuridiche frutto di atti o fenomeni normativi diversi da quelli che tecnicamente si definiscono leggi e dunque deve affrontare il problema del rapporto fra le varie fonti, per evitare antinomie e incertezze; per altro verso ancora, una certa legge può contenere, e di regola contiene, molte norme, ma una norma può anche risultare soltanto dal combinato disposto di più disposizioni legislative, ciascuna delle quali può regolare anche un solo aspetto di un fenomeno complesso.

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16
Q

Cos’è il diritto positivo?

A

Il diritto positivo è ciò che rappresenta il complesso di norme da cui è costituito ciascun ordinamento giuridico.

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17
Q

Cos’è il diritto naturale?

A

Talvolta inteso come matrice dei singoli diritti positivi, talaltra come criterio di valutazione critica dei concreti ordinamenti, talvolta raffigurato come un complesso di principi eterni e universali, talaltra considerato anch’esso alla stregua del tempo e dunque mutevole; talvolta legato a concezioni religiose circa la natura dell’uomo, talaltra ricollegato esclusivamente alla ragione umana. Il richiamo al diritto naturale cerca di soddisfare l’aspirazione ad ancorare il diritto positivo ad un fondamento valoriale obiettivo, universale e stabile, che elimi in rischio di arbitrarietà insito nella possibilità di elevare al rango di norma giuridica qualsiasi contenuto approvato da chi detiene il potere. Il diritto naturale non riesce a trovare un fondamento obiettivo ed univoco. La storia dimostra che, nel corso dei secoli, il contenuto stesso del diritto di natura, che pure si assume universale e invariabile, è andato mutando. Tuttavia la configurazione di un diritto sovraordinato a quello positivo costituisce un costante vincolo al legislatore, perché tenga conto della cultura e dei valori fondamentali della collettività e dei singoli ai quali indirizza i suoi comandi e soprattutto costituisce lo strumento per assicurare in certi contesti la tutela dei beni e interessi essenziali riferibili alla persona umana.

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18
Q

Rapporto fra diritto e giustizia

A

Il concetto di diritto evoca quello di giustizia. La definizione di giustizia e la determinazione nei singoli casi di quanto occorrerebbe per conseguire soluzioni non soltanto legali (cioè conformi al dettato normativo), ma anche giuste, incontra insuperabili difficoltà. Difatti l’individuazione di ciò che è obiettivamente giusto presupporrebbe la capacità del singolo di spogliarsi delle sue passioni, dei suoi egoismi, delle sue concezioni necessariamente soggettive.

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19
Q

Com’è strutturata la norma giuridica?

A

La norma è un enunciato prescrittivo che si articola nella formulazione di una ipotesi di fatto, al cui verificarsi la norma ricollega una determinata conseguenza o effetto giuridico, che può consistere nell’acquisto di un diritto, nell’insorgenza di un’obbligazione, nell’estinzione o modificazione di un diritto, nell’applicazione di una conseguenza afflittiva. La norma dunque si struttura come un periodo ipotetico: si compone della previsione di un accadimento futuro ed eventuale e dell’affermazione di una conseguenza giuridica che deriva dal concreto verificarsi dell’evento prefigurato dall’enunciato normativo. La parte della norma che descrive l’evento che intende regolare, facendone discendere determinati effetti giuridici, si definisce fattispecie.

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20
Q

Cos’è la fattispecie e quanti tipi di essa esistono?

A

La norma si struttura come un periodo ipotetico: si compone della previsione di un accadimento futuro ed eventuale e dell’affermazione di una conseguenza giuridica che deriva dal concreto verificarsi dell’evento prefigurato dall’enunciato normativo. La parte della norma che descrive l’evento che intende regolare, facendone discendere determinati effetti giuridici, si definisce fattispecie, la quale può essere astratta o concreta. Per fattispecie astratta si intende il fatto (o talora un complesso di fatti), descritto ipoteticamente da una norma ad indicare quanto deve verificarsi affinché si produca una data conseguenza giuridica. Per fattispecie concreta, invece, si intende non più un modello di evento configurato ipoteticamente, ma un determinato fatto o complesso di fatti realmente verificatisi, rispetto ai quali la norma descrive gli effetti giuridici che ne derivano. La ricostruzione di tutti gli elementi rilevanti ai fini della delineazione della fattispecie astratta e dell’individuazione degli effetti che ne conseguono, richiede spesso una lettura coordinata di una pluralità di disposizioni normative, in quanto la descrizione di un fatto giuridicamente rilevante può scaturire dalla combinazione di molteplici enunciati normativi, ciascuno dei quali descrive un profilo o una componente della fattispecie, la quale soltanto se considerata nella sua integrità risulta idonea a produrre gli effetti giuridici contemplati dalla legge.
Occorre ancora precisare che mentre l’individuazione della fattispecie astratta si risolve in una pura operazione intellettuale, di interpretazione del testo normativo, volta ad individuare i presupposti materiali dell’applicazione di determinate regole, l’indagine sulla fattispecie concreta consiste nell’accertamento - che nell’ambito del processo avviene attraverso gli strumenti di istruzione probatoria- del fatto storico, quale materialmente verificatosi, onde porre a confronto tale fenomeno con l’ipotesi astratta prevista e regolata dalla legge.
La fattispecie può consistere in un unico fatto (per es. la morte di una persona, da cui deriva l’apertura della sua successione ereditaria), e si chiama allora fattispecie semplice. Se, invece, la fattispecie è costituita da una pluralità di fatti giuridici (ad es per il matrimonio è necessario il consenso di entrambi i nubendi e la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile), essa si dice complessa. L’effetto ricollegato dalla norma alla fattispecie complessa non si verifica se non quando si siano realizzati tutti i fatti giuridici da cui essa è costituita. In alcuni casi, se la fattispecie si compone di una serie di fatti che si succedono nel tempo, si possono verificare effetti prodromici o preliminari, prima che l’intera serie sia completata.

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21
Q

Cos’è la sanzione?

A

Sappiamo che secondo un’antica concezione le norme giuridiche si caratterizzerebbero per il fatto di essere suscettibili di attuazione forzata (coercizione) o sarebbero comunque garantite dalla predisposizione, per l’ipotesi di trasgressione, della comminatoria di una conseguenza in danno del trasgressore, di una sanzione, la cui minaccia favorirebbe l’osservanza spontanea della norma, attraverso una forma di coazione psicologica volta a dissuadere dal tenere comportamenti antigiuridici.

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22
Q

Cosa sono le norme incentivanti?

A

La difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive o restaurative di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure preventive, di vigilanza e di dissuasione. Sussistono infatti anche norme che stabiliscono incentivi a favore dei soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni (ad es. a favore delle imprese che intraprendono nuove attività in zone considerate depresse o sottosviluppate).

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23
Q

Cos’è sempre previsto da una società pubblica?

A

Se la sanzione non può essere considerata un tratto essenziale di tutte le norme giuridiche, deve peraltro riconoscersi che l’ordinamento di una società politica prevede sempre l’allestimento di un apparato coercitivo, tendente ad assicurare, occorrendo anche con l’uso della forza, la salvaguardia della collettività e degli interessi e valori da questa condivisi contro minacce esterne ed interne e l’applicazione in concreto delle conseguenze sanzionatorie previste in astratto da singole norme per il caso di loro violazione. Lo stato moderno rivendica per sé il monopolio dell’uso della forza, riservandone l’esercizio ai suoi apparati e consentendolo ai privati soltanto in determinate circostanze (ad es. legittima difesa o adozione di specifiche misure di autotutela previste dalla legge).

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24
Q

Quali sono i caratteri essenziali della norma giuridica?

A

Essi sono la generalità e l’astrattezza dei relativi precetti. Con il carattere della generalità s’intende che la legge non deve essere dettata per singoli individui, ossia formulata in modo da essere applicata ad una sola persona o ad una schiera predeterminata di soggetti individualmente identificati (c.d. leggi-fotografia o ad persona), bensì o per tutti i consociati o per classi generiche di soggetti (i commercianti, i proprietari di beni immobili…).
Con il carattere dell’astrattezza si intende che la legge non deve essere dettata per specifiche situazioni concrete, bensì per fattispecie astratte, ossia per situazioni descritte ipoteticamente. La norma ha lo scopo di regolare una serie indeterminata di casi futuri ed eventuali e si presta ad applicarsi a chiunque si verrà a trovare nella situazione prefigurata dalla norma.

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25
Q

Cosa prevede il principio di eguaglianza e da cosa va distinto?

A

Particolarmente importante nella formulazione della norma giuridica è l’esigenza del rispetto del c.d. principio di eguaglianza che è solennemente proclamato da una tra le più importanti disposizioni della nostra Carta costituzionale (art. 3). Dal principio di eguaglianza va tenuto distinto il principio per cui i pubblici uffici devono rispettare nell’esercizio delle loro funzioni il criterio dell’imparzialità (art. 97 Cost), ossia l’obbligo di applicare le leggi in modo eguale, senza arbitrarie differenziazioni di trattamento a favore o a danno dei singoli interessati (a questo significato va riportata la solenne affermazione che si legge nelle aule dei Tribunali: La legge è uguale per tutti).
Nell’art 3 Cost. è solennemente enunciato il principio di eguaglianza, che ha peraltro due profili:
a) il primo è di carattere formale (art.3 comma 1) ed importa che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. La norma fa esplicito riferimento ai soli cittadini, ma la Corte costituzionale ha specificato che il principio di eguaglianza deve essere rispettato anche nei confronti degli stranieri, quanto meno per quanto riguarda i diritti fondamentali della persona. Si tratta di un vincolo rivolto innanzitutto al legislatore ordinario ed opera non già nel senso che tutte le norme di legge debbano sempre indirizzarsi in modo identico a tutti i cittadini, bensì nel senso che l’individuazione delle categorie di soggetti cui ciascuna norma è destinata deve avvenire in modo non arbitrario, con criteri che evitino di trattare situazioni omogenee in modo differenziato o situazioni disomogenee in modo eguale. Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è affidato alla Corte costituzionale, la quale può dichiarare l’illeggittimità di una norma di legge quando ravvisi un’irragionevole o arbitraria differenziazione normativa di situazioni che siano disomogenee, o un’assimilazione di trattamento nei confronti di situazioni tra loro diverse.
b) il secondo è di carattere sostanziale (art. 3, comma 2) ed impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Si tratta di un’indicazione programmatica rivolta agli organi dello Stato, sollecitati ad assumere misure idonee ad attenuare le condizioni di vita dei singoli.

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26
Q

Cos’è la sussunzione?

A

La norma giuridica in genere contiene la previsione astratta di una situazione-tipo. Quando occorre risolvere una concreta controversia il giudice è tenuto a decidere applicando la norma precostituita che egli identifica come riferibile alla situazione sottoposta al suo esame. Quindi la sussunzione è proprio l’operazione di riconduzione del caso concreto a quello generale previsto da una norma giuridica.

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27
Q

Cos’è l’equità?

A

Essa è stata sinteticamente definita come la giustizia del caso singolo. In qualche ipotesi al giudicante è consentito decidere senza fare applicazione di una specifica norma oggettiva, bensì sulla base di criteri fondati sul contemperamento degli interessi contrapposti e sulla realizzazione di valori di giustizia condivisi dalla collettività sociale, che appaiono più adatti a regolare il caso concreto. Infatti può accadere che l’applicazione della norma legale ad un certo caso concreto dia luogo a conseguenze che urtano contro il sentimento di giustizia. Il ricorso all’equità quale criterio decisionale è però consentito solo in casi eccezionali. L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, in quanto ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattamente quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti. Conseguentemente, la legge stabilisce che il giudice, nel decidere le controversie, deve seguire le norma del diritto, e può discostarsene soltanto nel caso in cui la stessa legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità (art. 113 c.p.c), il che avviene nelle cause di minor valore, attribuite alla competenza del Giudice di Pace, ovvero qualora siano state le parti della controversia ad attribuire concordemente al giudice il potere di decidere secondo equità (art. 114 c.p.c). In quest’ultimo caso l’autorizzazione delle parti è possibile se i diritti fatti valere si possano qualificare come disponibili. In tutte le altre ipotesi la norma deve essere rigorosamente applicata, anche se conduca ad un risultato avvertito come iniquo (summum ius, summa iniuria). Anche nell’ipotesi eccezionale in cui è ammesso il ricorso all’equità, il giudice non può far prevalere le sue concezioni personali (cosiddetta equità cerebrina), ma deve ispirarsi a quelle accolte dall’ordinamento vigente e ricercare, pertanto, come si sarebbe comportato il legislatore se avesse potuto prevedere il caso. La Corte costituzionale ha precisato che anche il Giudice di Pace - in ossequio al principio di legalità - deve comunque fare riferimento nel motivare la propria decisione ai principi informatori della materia, tra i quali sono senz’altro da considerare le norme di rango costituzionale e quelle di derivazione comunitaria.
Dall’equità come criterio decisorio va distinta l’quità c.d. integrativa, espressione che si riferisce ai casi in cui la legge prevede che il giudice provveda ad integrare o determinare secondo equità gli elementi di una fattispecie o anche di un regolamento contrattuale predisposto dalle parti.

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28
Q

Cos’è il diritto pubblico?

A

Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la loro azione nell’interesse della collettività ed impone ai singoli il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata. Esso attiene in gran parte all’esplicazione di pubblici poteri: individua gli organi competenti ad esercitarli, le modalità del loro esercizio, la posizione e le tutele dei privati di fronte ad atti di esercizio di poteri pubblici, e si articola nelle varie branche del diritto costituzionale, amministrativo, penale, tributario, ecc.

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29
Q

Cos’è il diritto privato?

A

Il diritto privato disciplina le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati (es. le associazioni o le società commerciali), lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione delle singole norme e l’esercizio dei diritti attribuiti agli individui. Anche il diritto privato è innanzitutto diritto, cioè parte dell’ordinamento, complesso di norme dettare cercando di avere presenti gli interessi di tutta la società, che vengano realizzati attraverso una certa disciplina dei rapporti tra i privati; ma si tratta di disposizioni in base alle quali il singolo, individuo o ente, non si viene a trovare in situazioni di soggezione di fronte ad un potere pubblico, dotato di strumenti di supremazia, bensì opera su un piano di eguaglianza con gli altri individui.

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30
Q

Esiste un confine fra diritto pubblico e diritto privato?

A

La linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato è però variabile: lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati, e viceversa; può sanzionare penalmente comportamenti un tempo considerati di mero interesse privato e viceversa: o può rinunciare ad organizzare in forma pubblica determinati tipi di attività, restituendoli all’iniziativa privata, preferendosi, anche i settori ritenuti strategici, promuovere e regolare imprese private, piuttosto che far svolgere tali attività da soggetti pubblici.
La distinzione, oltre che mutevole nel tempo, è anche per larga misura incerta: enti pubblici, come le banche e compagnie di assicurazioni, possono svolgere attività di diritto privato in concorrenza con aziende private; per altro verso soggetti privati possono essere concessionari di servizi pubblici ed essere perciò datati di taluni poteri pubblicistici; lo Stato o altri enti pubblici possono avere il controllo di società di diritto privato in qualità di azionisti di maggioranza.

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31
Q

Attività di diritto privato degli enti pubblici

A

Non tutto ciò che riguarda soggetti pubblici, beni pubblici, attività pubbliche, appartiene per ciò solo al diritto pubblico: infatti i soggetti pubblici possono operare anche iure privatorum; sui beni pubblici possono talvolta costituirsi rapporti di diritto privato; gli enti pubblici talora perseguono finalità o svolgono servizi di pubblico interesse per il tramite di società per azioni di diritto privato, sia con la partecipazione di altri enti pubblici, sia unitamente a soggetti privati (c.d. società miste).
Si aggiunga che, spesso, un medesimo fatto è disciplinato sia fa norma di diritto privato che da norma di diritto pubblico: l’investimento di un pedone da parte di un automobilista fa scattare sia la sanzione penale per lesioni colpose (art. 590 c.p.), sia quella amministrativa ( es. sospensione della patente di guida), sia la sanzione civile del risarcimento del danno (art. 2043 c.c.); la costruzione illegittima di un fabbricato può violare sia il piano regolatore comunale, sia il diritto del singolo frontista all’osservanza delle distanza legali (art. 872 e 873 c.c.); il mancato pagamento dei contri buti previdenziali da parte del datore di lavoro a favore del singolo prestatore d’opera viola tanto la disciplina privatistica del rapporto di lavoro quanto un obbligo di carattere pubblicistico, e via dicendo.
Di fronte a questa situazione la tradizionale bipartizione appare evanescente e va conservata soprattutto in via orientativa e quale criterio di massima, mentre assume sempre più rilievo un diverso modo di considerazione della realtà giuridica, che pone quale canone per distinzione tra i vari tipo di norma la rilevanza degli interessi in gioco.

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32
Q

Come si dividono le norme di diritto privato?

A

Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili o dispositive e inderogabili o cogenti: si inderogabili o cogenti quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili o dispositive le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Si usa poi individuare un’ulteriore categoria di norma, quelle suppletive, le quali sono destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto dei rapporti tra loro: una lacuna cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione. Così, ad esempio, l’art. 1193, comma 1, c.c. attribuisce al debitore, che abbia più debiti nei confronti del creditore, la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare. Qualora ciò non faccia, interviene in via suppletiva la legge, che con l’art. 1193, comma 2, dispone a quale dei debiti deve essere imputato il pagamento eseguito dal debitore.
Naturalmente anche l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede, in caso di violazione, l’iniziativa del singolo il cui diritto soggettivo sia stato leso, non essendo compito degli organi pubblici far rispettare norme di diritto privato realizzando gli interessi dei singoli.

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33
Q

Qual è la funzione delle norme dispositive?

A

Con la norma dispositiva il legislatore pone un criterio di disciplina nel caso in cui la volontà dei singoli non si è manifestata, ossia enuncia una regola corrispondente ad un modello abituale di regolamentazione di quel tipo di operazione economica; tuttavia le parti possono, con una loro manifestazione di volontà, rendere inoperante quella norma rispetto alla disciplina del loro rapporto.

34
Q

Come avviene l’individuazione delle norme cogenti?

A

Il carattere cogente di una norma di una norma risulta spesso direttamente dalla sua formulazione (es. art. 147 c.c.: il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli), oppure dalla previsione della nullità dell’atto compiuto in violazione di una norma (es. l’art. 1350 c.c. impone a pena di nullità che gli atti di trasferimento della proprietà di beni immobili siano fatti per iscritto) o in contrasto con specifici limiti alla libertà dei privati di regolare i loro rapporti (es. art. 1229 c.c.: è nullo qualsiasi patto esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave). Correlativamente, indici testuali del carattere derogabile possono essere le espressioni <salvo> (art. 1815 c.c.), <salvo> (art. 957 c.c.), e simili.
Non sempre soccorrono elementi letterali sufficientemente precisi, e allora per stabilire se una norma sia imperativa o dispositiva bisogna indagare quale sia lo spirito della norma o, come si dice, la volontà del legislatore.</salvo></salvo>

35
Q

Cosa s’intende per fonti di produzione delle norme giuridiche?

A

Per fonti di produzione delle norme giuridiche si intendono gli atti e i fatti idonei a produrre diritto. Consistono in atti quelle fonti che si manifestano in esplicazioni dell’attività di un determinato organo o autorità muniti del potere di produrre norme (es. una legge del parlamento; un decreto di un sovrano assoluto, ecc.); ma la norma può anche nascere da un semplice fatto, come per esempio una consuetudine affermatasi nel tempo come regola giuridica di condotta nell’ambito di una determinata comunità. Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di cognizione, ossia i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prendere conoscenza (quando si tratti di fonti che consistono in atti) del testo di un atto normativo (ad es. Gazzetta Ufficiale).
Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un atto, si può individuare: a)l’organo investito del potere di emanarlo (il Parlamento, il Governo); b) il procedimento formativo dell’atto (ad es. il procedimento di emanazione di una legge costituzionale o ordinaria statale e regionale); il documento normativo (la legge, considerata nel suo testo); d) i precetti ricavabili dal documento (determinando, tramite interpretazione del testo, il suo significato).

36
Q

Come avviene l’individuazione delle fonti?

A

Ogni ordinamento deve anzitutto stabilire le norma sulla produzione giuridica, ossia a quali autorità, a quali organi, e con quali procedure sia affidato il potere di emanare norme giuridiche; pertanto si rende indispensabile regolarne il rapporto gerarchico, ossia precisare, nel caso in cui due o più fonti diverse stabiliscano regole tra loro contrastanti, quale debba prevalere. La gerarchia delle fonti esprime perciò una regola sulla produzione giuridica che identifica la norma applicabile in caso di contrasto tra norma provenienti da fonti diverse.

37
Q

La gerarchia delle fonti nel nostro Paese

A

Nel nostro Paese la gerarchia delle fonti è stata interessata, a partire dalla metà del ‘900, da profondi mutamenti, connotati negli anni più recenti soprattutto all’affermarsi di fonti di produzione del diritto non statali: gli organi sovranazionali delle istituzioni europee, da un lato, ed enti infrastatuali, come le regioni, dall’altro lato. Conviene, per ordine, ricordare anzitutto il regime delineato dal codice civile. L’art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale o preleggi, anteposte al codice civile (emanato nel 1942), ordinava le fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i regolamenti, al terzo le norma corporative, e all’ultimo gli usi. Con la caduta del fascismo le norme corporative hanno perduto efficacia; le altre fonti enumerate dall’art. 1 disp. prel. c.c. hanno invece conservato il loro valore secondo l’ordine gerarchico dettato dalla citata disposizione; ma a quell’elenco nel dopoguerra si sono aggiunte altre importanti fonti del diritto: prima fra tutte la Costituzione, entrata in vigore nel 1948 (la Costituzione venne approvata da un’Assemblea costituente, eletta successivamente al referendum celebrato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, che assegnò allo Stato la forma repubblicana in luogo di quella monarchica). Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la gerarchia delle fonti interne è risultata così ricostruita: a) alla sommità della scala si collocano i principi definiti supremi o fondamentali, da cui discendono diritti inviolabili, cosicché queste norma appaiono secondo una diffusa concezione insuscettibili di modifica o revisione; b) seguono le disposizioni della Carta costituzionale e delle leggi di rango costituzionale; c) vengono poi le ,leggi statali ordinarie e le altre fonti di cui all’art. 1 delle preleggi. Nella descritta scala gerarchica si sono poi inserite, determinandone ulteriori articolazioni, le leggi regionali e le norma di matrice comunitaria.

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La rilevanza della Costituzione nel sistema delle fonti del diritto

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Anzitutto la Costituzione assolve la funzione di fondamentale norma sulla produzione giuridica. Essa stabilisce, regolando il procedimento di formazione delle leggi, la disciplina degli atti normativi. Le disposizioni costituzionali si integrano, poi, con l’art 1 disp. prel. c.c., che pone la gerarchia delle ulteriori fonti (regolamenti e consuetudini), e con l’art. 2 disp. prel. c.c., il quale precisa che la formazione delle leggi e degli atti del Governo aventi forza di legge sono disciplinate da leggi di carattere costituzionale; disposizioni che non sono state abrogate con l’entrata in vigore della Costituzione, anche se l’art 1 citato ha perduto la funzione fondamentale di regola esclusiva sulla gerarchie delle fonti che rivestiva nel sistema vigente fino al 1948.
La Costituzione italiana non disciplina soltanto il procedimento di elaborazione delle leggi, ma pone altresì regole e principi che si atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore. Si vedano per esempio, oltre al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), le norma che prevedono i fondamentali diritti e doveri dei cittadini (sancendo per esempio l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio; la libertà di circolazione, di associazione, di professione della fede religiosa, di manifestazione del pensiero; il diritto di agire in giudizio; la tutela della proprietà e della libertà di iniziativa economica; la tutela della famiglia e dei figli e via dicendo): una legge ordinaria che violasse questi diritti sarebbe illegittima. Si ritiene anzi che i principi supremi enunciati dalla Costituzione costituiscano limiti allo stesso potere del legislatore costituzionale, in quanto non sarebbero suscettibili di revisione (un divieto espresso di revisione è invece previsto soltanto per la forma repubblicana dello Stato: art. 139 Cost.). Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali - che hanno lo stesso valore gerarchico della Costituzione e sono perciò sovraordinate alle altre fonti - devono essere approvate con un’apposita procedura, più complessa di quella prevista per le leggi ordinarie, regolata dall’art. 138 Cost.

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Cos’è la Corte Costituzionale?

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Innanzitutto bisogna dire che la Costituzione italiana è rigida, in quanto una legge ordinarie dello Stato non può né modificare la Costituzione o altra legge di rango costituzionale, né contenere disposizioni in qualsiasi modo in contrasto con norme costituzionali. A presidio di questa rigidità della nostra Carta costituzionale (a differenza dello Statuto albertino del 1848, che era una costituzione flessibile) è stato istituito un apposito organo, la Corte costituzionale, cui è affidato il compito di stabilire se disposizioni di una legge ordinaria o di altri atti aventi forza di legge siano in conflitto con norme costituzionali (art. 134 Cost.). Il controllo di legittimità costituzionale dell leggi è previsto nella forma del controllo incidentale: se un giudice, chiamato a decidere una specifica controversia, ritiene di dover applicare ai fini della decisione una determinata norma di legge, e quella norma gli appare sospetta di costituzionalità, deve rimettere gli atti del processo alla Corte costituzionale, affinché decida al riguardo. È anche previsto un giudizio di costituzionalità in via principale, che può essere promosso dal Governo, contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni, o da una Regione contro le leggi dello Stato o di un’altra Regione che ledano la sua sfera di competenza (art. 127 Cost.). Non è invece consentito a singoli privati rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale per denunziare l’illegittimità di una legge. Se la Corte ritiene illegittima la norma sottoposta al suo esame, dichiara con sentenza l’incostituzionalità della o delle disposizioni viziate, che cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136 Cost.).

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Il ruolo del diritto internazionale nelle leggi costituzionali

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Alle fonti di rango costituzionale appartengono anche le norme del diritto internazionale consuetudinario, il cui fondamento risiede nell’art. 10 Cost., ove è stabilito che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Da tale disposizione discende che le norma di ambito internazionale formatesi in seguito ad un ossequio spontaneo da parte delle Nazioni non solo entrano a far parte dell’ordinamento senza la necessità di una legge di ratifica da parte del Parlamento, ma altresì godono della medesima forza vincolante della Carta costituzionale, onde non possono essere modificate o contraddette da una legge ordinaria. Peraltro in caso di contrasto tra una consuetudine internazionale e i principi dell’ordinamento costituzionale italiano sono questi ultimi a prevalere (Corte Cost. 22 ottobre 2014, n. 238). Vi è da precisare che la stessa posizione gerarchica nel quadro delle fonti non è riconosciuta al diritto internazionale convenzionale. Quest’ultimo ha la propria base nella legge che autorizza alla ratifica del trattato, la quale ha la medesima forza vincolante di tutte le altre leggi ordinarie. Poiché, tuttavia, l’art. 117 Cost. (come modificato dalla legge cost. n. 3 del 2001) vincola l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi internazionali, si è ritenuto di attribuire ai Trattati (soprattutto quelli in materia di diritti umani) un valore sovraordinato rispetto alle leggi ordinarie.

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La legge ordinaria

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Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una procedura dettagliatamente disciplinata dalla Carta costituzionale (artt. 70 approvazione di un identico testo da parte di entrambe le Camere, promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale). La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma non avente valore di legge, mentre non può essere modificata o abrogata se non da una legge successiva (art. 15 disp. prel. c.c.). Vi sono materie che non possono essere regolate se non mediante legge, c.d. riserva di legge, e dunque non possono essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore (come per esempio i regolamenti).
Alle leggi statali sono equiparati i decreti legislativi delegati e i decreti legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi forza di legge emanati dal Governo e non dal Parlamento: ciò può avvenire o in virtù di una legge di delega da parte del Parlamento, che deve specificare l’oggetto della delega e i principi e criteri direttivi ai quali il Governo deve attenersi (art. 76 Cost.; in tale ipotesi si impone il rispetto dei limiti della delega, altrimenti il decreto legislativo risulta incostituzionale per c.d. eccesso di delega); oppure in presenza di casi straordinari di necessità e urgenza, ma è in tal caso necessario che il decreto-legge del Governo venga convertito in legge dal Parlamento entro sessanta giorni, altrimenti perde efficacia sin dall’inizio (art. 77 Cost.) . La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare (art. 75 Cost.).

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La legislazione regionale e il suo rapporto con la legislazione statale

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Il ruolo delle leggi regionali e il rapporto di queste con quelle statali sono stati di recente profondamente innovati. L’art. 117 della Carta costituzionale approvata nel 1948 conferiva alle regioni un potere legislativo nell’ambito di un insieme determinato di materie e, comunque, ponendo il diritto di fonte regionale in posizione sottordinata rispetto a quello dello Stato. La Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha modificato l’intero Titolo V Cost. (dedicato a Le Regioni, le Provincie, i Comuni). In particolare, per quanto interessa in questa sede, il vigente testo dell’art. 117 regola i rapporti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117 (tra le quali, è interessante osservare, rientrano giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa, ancorché non sia fino in fondo chiaro il significato dell’espressione “ordinamento civile” e dunque quale sia l’estensione dell’ambito di competenza riservata allo Stato in materia di diritto civile; la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. ha aggiunto a tali materie la competenza concernente o finalizzata all’armonizzazione dei bilanci pubblici); esistono poi materie di legislazione concorrente tra Stato e regione (elencate all’art. 117, comma 3, Cost.): in tali materie la potestà legislativa spetta alle Regioni, compete però alla legislazione dello Stato la determinazione dei principi fondamentali; infine, è attribuita alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Dunque oggi il criterio fondamentale cui si ispirano i rapporti tra legge statale e regionale non è più quello della gerarchia, bensì quello della competenza, in quanto sono stabiliti distinti ambiti di operatività, rispettivamente, della legislazione statale e regionale; il principio di gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione concorrente, poiché in tal caso allo Stato spetta funzione di stabilire i principi fondamentali, ai quali, dunque la legge regionale si deve attenere.

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Cosa sono i regolamenti?

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Subordinate alle leggi vi sono altre fonti di diritto: l’art. 1 delle preleggi menziona i regolamenti, le norme corporative (oggi non più attuali, dopo la dissoluzione del sistema corporativo fascista) e gli usi (consuetudini).
I regolamenti sono fonti secondarie, sottordinate alla legge, e possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità amministrative, anche non statali, come le c.d. autorità indipendenti (ormai numerose: si pensi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, alla Consob, al Garante per la protezione dei dati personali e via dicendo), nell’ambio di apposite prescrizioni di legge (art. 3 disp. prel. c.c.). Essi hanno contenuto normativo - in quanto pongono norme generali ed astratte - ma provengono dall’autorità amministrativa, non dal potere legislativo, e possono riguardare le materie più varie. I regolamenti, per esempio, disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici, o anche degli organi costituzionali (ad es. i regolamenti parlamentari, i quali peraltro hanno rango di norme primarie), o regolano specifiche materie in forza di una delega o autorizzazione contenuta in una legge, che può fare rinvio, per completare la disciplina, a successivi regolamenti (nell’ambito del diritto privato assumono rilievo i regolamenti della Consob in materia di disciplina dei mercati finanziari o quelli della Banca d’Italia in materie di attività bancarie e creditizia).
Come ribadito dall’art. 4, comma 1, delle preleggi, i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge. Qualora dunque un giudice rilevi l’esisenza di un contrasto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a disapplicare la prima: vale a dire che non ne terrà conto per decidere la controversia sottoposta al suo esame, la quale sarà risolta in base alla norma contenuta nella legge. Quando un regolamento sia impugnato davanti ad un giudice amministrativo (ossia ad un organo giurisdizionale che il potere di decidere la legittimità degli atti della Pubblica Amministrazione: Tribunale Amministrativo Regionale - TAR o Consiglio di Stato), quest’ultimo, a differenza del giudice civile, ha il potere di provvedere con sentenza all’annullamento del regolamento contrario alla legge. La differenza tra l’annullamento e la disapplicazione consiste in questo: se il regolamento è annullato la sua efficacia viene rimossa, ed esso non è più applicabile neppure rispetto a casi concreti diversi da quello che ha dato origine all’impugnazione; invece la disapplicazione opera solo nell’ambito di quello specifico processo, ma il regolamento rimane in vigore, e potrebbe essere applicato in altri casi, se per esempio un altro giudice, interpretando diversamente il regolamento e la legge, non ravvisasse un’incompatibilità tra le due fonti.

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Il fondamento costituzionale dell’efficacia delle norme comunitarie

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Ha acquistato valore prevalentemente rispetto alle stesse leggi ordinarie statali tutta la normativa comunitaria. L’ingresso dell’Italia prima nelle Comunità Europee e poi nell’Unione Europea è avvenuta mediante l’adesione a trattati internazionali, che attualmente si identificano con il Trattato sull’Unione Europea, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza). In riferimento all’ordinamento europeo essi costituiscono le cc.dd. fonti originarie del diritto comunitario, nelle quali sono contenute anche le norme di produzione concernenti le fonti derivate. È opportuno precisare che sebbene i trattati originari e le versioni successive (sino al Trattato di Lisbona) siano state recepite nell’ordinamento interno non con leggi costituzionali, bensì con leggi ordinarie di autorizzazione alla ratifica, la valenza costituzionale dei Trattati viene affermata sulla base del disposto dall’art. 11 Cost, alla stregua del quale sono ammissibili limitazioni della sovranità nazionale per consentire la partecipazione del nostro paese ad organizzazioni internazionali. È sulla base di tale principio che è possibile affermare, da una parte, l’equiparazione dei Trattati alla Carta costituzionale - fatti salvi il rispetto dei principi supremi e dei diritti inviolabili stabiliti dalla Costituzione (Corte cost. 21 aprile 1989, 2. 232) - dall’altra la prevalenza di tutto il diritto comunitario (e non solo dei trattati) sulle fonti interne di rango ordinario. Il principio è ora più esplicitamente affermato dall’art. 117, comma 1, Cost., come modificato dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, a norma del quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Di recente, la CGUE ha ribadito che gli organi nazionali di ultima istanza sono chiamati a fare tutto il necessario non solo affinché venga applicato il diritto di fonte comunitaria (nel caso disapplicando anche il diritto nazionale), ma anche affinché venga applicata l’interpretazione che di tale diritto viene fornita dalla Corte di Giustizia (CGUE, 5 aprile 2016)

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Quali sono le fonti derivate di matrice comunitaria?

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Le fonti derivate di matrice comunitaria sono i regolamenti, le direttive e le decisioni.

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Cosa sono i regolamenti comunitari?

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I regolamenti (art. 288, comma 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, detto anche per brevità TFUE) sono atti di portata generale e obbligatori in tutti i loro elementi. Essi contengono norme applicabili dai giudici dei singoli Stati membri, come se fossero leggi dello Stato, senza bisogno di recepimento. Prima la Corte di giustizia e poi la nostra Corte costituzionale (sent. 18 giugno 1984, n. 170) hanno chiarito che, nel caso di contrasto tra un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve disapplicare la norma interna e applicare, con prevalenza, la norma regolamentare (e ciò anche se la norma interna sia posteriore a quella regolamentare, il che pone quest’ultima in posizione gerarchica superiore a quella della legge ordinaria dello Stato);

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Cosa sono le direttive?

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Le direttive (art. 288, comma 3, del TFUE) si rivolgono agli organi legislativi degli Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli Paesi; a differenza dei regolamenti, le direttive non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento dei singoli Stati, ma devono essere attuate mediante l’emanazione di apposite leggi dei rispettivi Parlamenti (leggi di recepimento della direttiva). Per esempio la disciplina “Dei contratti del consumatore” venne introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva 93/13/CE, il cui scopo era appunto quello di far sì che tutti gli Stati membri assicurassero un omogeneo livello di protezione dei consumatori contro le clausole contrattuali vessatorie o abusive. Uno Stato che si renda inadempiente all’obbligo di attuare una direttiva entro il termine previsto dalla stessa può essere sanzionato dagli organi comunitari. Inoltre. benché una direttiva, se non ancora attuata, non possa fondare diritti tra privati e non possa pertanto essere applicata da un Giudice italiano per risolvere una controversia tra singoli individui, si ritiene che, qualora le norme della direttiva siano sufficientemente specifiche e sia scaduto il termine per la sua attuazione, gli organi della Pubblica Amministrazione vi si debbano uniformare, anche in assenza di un’apposita legge di recepimento. Pertanto i privati possono pretendere che gli apparati pubblici orientino la loro condotta in modo coerente con le disposizioni della direttiva, in quanto la stessa è vincolante per lo Stato. Infine un cittadino che abbia subito un danno a causa del mancato o tardivo recepimento della direttiva - ciò che può avvenire quando la direttiva sia volta ad attribuire specifici diritti al privano, che tuttavia in concreto non li ha acquistati a causa appunto dell’omesso recepimeno nell’ordinamento interno - può chiedere il risarcimento allo Stato.

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Cosa sono le decisioni?

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Le decisioni (art. 288, comma 4, del Trattato FUE) disciplinano normalmente situazioni ben definite, e sono vincolanti soltanto per i soggetti destinatari specificatamente individuati: persone fisiche o giuridiche, oppure Stati membri. Questo tipo di atto è adottato frequentemente dalla Commissione nell’ambito della concorrenza. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le decisioni possono essere anche di portata generale, come accade per quelle decisioni di carattere organizzativo e per quelle in materia di politica estera e sicurezza comune.

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Di cosa si occupa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea?

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La Corte di giustizia dell’Unione Europea, alla quale è affiancato anche un tribunale, ha competenza, ai sensi dell’art. 267 TFUE, in tema di interpretazione dei trattati, nonché di validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Infatti, qualora un giudice nazionale ritenga che la questione su cui debba decidere comporti l’applicazione di una norma comunitaria, il cui significato sia dubbio, può sospendere il giudizio e chiedere alla Corte di giustizia in via pregiudiziale un’interpretazione della norma. Le sentenze interpretativa così emesse dalla Corte sono vincolanti e prevalgono pure sulle norme di legge eventualmente incompatibili, determinandone la disapplicazione.

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Cos’è la legge comunitaria?

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Per consentire una tempestiva attuazione delle direttive è stato elaborato lo strumento della legge comunitaria, ossia una legge generale, approvata anno per anno, con la quale il Parlamento delega al Governo l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione di un insieme di direttive, delle quali sia in scadenza il termine di attuazione. Ciò permette di dare attuazione alle direttive senza passare attraverso il complesso iter parlamentare di approvazione delle leggi. Il procedimento è stato più analiticamente regolato dalla Legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante <Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea>, la quale prevede che entro il 28 febbraio di ogni anno il Governo presenti una legge di delegazione europea, alla quale ne può seguire un’altra, entro il 31 luglio, relativa al secondo semestre dell’anno. Inoltre è previsto un ulteriore strumenti, la legge europea, per dare attuazione agli atti europei e ai trattati internazionali stipulati nell’ambito delle relazioni esterne dell’Unione.

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Cos’è la consuetudine?

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La nostra tradizione giuridica è dominata dalla distinzione fra due modi tipici di produzione del diritto: la consuetudine e la legge; non vi è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non siano, in misura maggiore o minore, presenti. Il diritto consuetudinario di regola riceve scarsa attenzione. Questo atteggiamento è parzialmente giustificato dall’importanza del tutto secondaria e residuale che la consuetudine riveste nell’ambito degli ordinamenti contemporanei, i quali, per ragioni di certezza del diritto e per la crescente complessità del sistema normativo, privilegiano senz’altro le fonti scritte. Tuttavia, a parte l’indiscussa importanza storica della fonte consuetudinaria, anche nel diritto contemporaneo vi sono settori nei quali la consuetudine ha mantenuto un ruolo di rilievo. Si ritiene che una consuetudine (nel linguaggio del codice civile ciò che in dottrina si una chiamare consuetudine assume il nome di uso) sussista quando ricorrono: 1) la ripetizione, generale e costante in un determinato ambiente, per un tempo adeguatamente protratto, di un certo comportamento osservabile come regola di condotta tra i privati (questo è l’elemento c.d. materiale o oggettivo della consuetudine, comunemente denominato usus); 2) un atteggiamento di osservanza di quel comportamento in quanto ritenuto, nell’ambiente sociale considerato, doveroso (c.d. opinio iuris ac seu necessitatis) e non semplicemente conforme a prassi. Quest’ultimo profilo esprime appunto la concezione di giuridicità della consuetudine, in quanto l’uso viene recepito all’interno di una determinata collettività di individui come fonte di regole giuridiche, come tali coercitive. In ciò consiste la differenza rispetto alle abitudini o ai costumi meramente sociali, che si traducono in regole sociali dell’agire individuale, le quali però non costituiscono fonte di diritti inn capo a taluni soggetti nei confronti di altri e la cui inosservanza non concreta violazione di precetti giuridicamente sanzionati. L’uso normativo, invece, è norma giuridica che costituisce fonte di diritti tra i privati, sicché il singolo che lamenti la lesione di un proprio diritto, derivante da una fonte consuetudinaria potrà rivolgersi al giudice per ottenere gli opportuni provvedimenti di tutela di quel diritto.
La consuetudine non è prevista e disciplinata dalla Costituzione. Essa costituisce fonte del diritto in virtù dell’art. 1 disp. prel. c.c.: dunque in virtù di una disposizione di rango legislativo. Ne segue che la consuetudine è fonte strutturalmente subordinata alla legge e può operare solo nei limiti in cui la legge lo consente. Ciò vale di per sé ad escludere l’ammissibilità della consuetudine cosiddetta contra legem, come pure della desuetudine. Se ne trova conferma nell’art. 15 disp. prel. c.c., il quale dispone che le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori. Sicché è escludo, in linea di principio, che una legge possa essere abrogata mediante desuetudine, ossia in forza di una consuetudine in contrasto con la legge.

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Come si dicono le consuetudini che operano in accordo con la legge?

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L’art. 8, comma 1, disp. prel. c.c. stabilisce che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati. Si dicono consuetudini secundum legem quelle che operano in accordo con la legge in quanto ad esse la legge fa rinvio. Talora gli usi sono richiamati quali fonti di norme derogatorie rispetto alla disciplina codicistica: in quest’ultima ipotesi la legge reca una norma dispositiva, applicabile salvo uso contrario.
Per ciò che concerne le rare materie o fattispecie non disciplinate in alcun modo da fonti scritte - le materie cioè per le quali il diritto scritto è totalmente lacunoso - nulla è espressamente disposto. Argomentando a contrario della disposizione in esame (art 8 disp. prel. c.c), i più ritengono che in queste materie sia consentito ricorrere alla consuetudine onde colmare le lacune del diritto. La consuetudine non richiamata da fonti scritte, ma potenzialmente rilevante come fonte integrativa della disciplina posta dalle fonti scritte, è comunemente detta consuetudine praeter legem. D’altro canto si deve osservare che l’art. 12, comma 2, disp. prel. c.c. prevede espressamente, quali tecniche di integrazione del diritto lacunoso, l’analogia e il ricordo ai principi generali del diritto, non menzionando affatto la consuetudine. Sicché il ruolo della consuetudine praeter legem non può che essere estremamente ridotto. Sulla base della disposizione menzionata, si può sostenere che il ricorso a norme consuetudinale sia consentito solo quando il caso in esame non possa essere deciso mediante analogia, e neppure ricada sotto alcun principio generale.

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Il diritto consuetudinario e l’accertamento del suo contenuto

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Il diritto consuetudinario, in quanto non scritto e perciò non documentato dalle fonti ufficiali di cognizione, solleva delicati problemi di accertamento del suo contenuto. Da un lato, vale anche per la consuetudine il principio iura novit curia (ossia il principio per cui l’esistenza di una norma non deve essere provata dalla parte che ne chiede l’applicazione, in quanto l’ordinamento giuridico dello Stato è per definizione noto ai giudici dello Stato): pertanto, il giudice deve applicare la consuetudine di cui sia a conoscenza. Dall’altro lato è di fatto possibile che l’esistenza di una norma consuetudinaria di cui una parte pretenda l’applicazione sia controversa e debba essere obiettivamente accertata. In simili circostanza è la parte interessata all’applicazione di una norma consuetudinaria ad avere l’onee di provarne l’esistenza, collaborando con il giudice in tal senso. Tale attività probatoria non è soggetta a forme legali. La prova può essere fornita facendo ricorso ad ogni mezzo consentito per l’accertamente di fatti: documenti, testimonianza, precedenti applicazioni. Esistono raccolte ufficiali di usi (per esempio quelle curate dalla Camere di Commercio, che raccolgono gli usi commerciali praticati su una certa piazza), che non hanno ovviamente alcun valore di fonte normativa, ma determinano una presunzione semplice circa l’esistenza degli usi da esse documentati. L’uso che abbia gli elementi su indicati si chiama uso normativo e si distingue dagli usi negoziali o contrattuali o convenzionali che valgono solo per l’integrazione degli effetti del contratto, sia dagli usi interpretativi, che assolvono ad una funzione appunto interpretativa del contratto,.

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Cosa s’intende per codice?

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Speciale rilievo tra tutte le leggi ordinarie dello Stato va riconosciuto a quel particolare tipo di leggi che vengono definite codici. Il termine codice - che in origine indicava genericamente un libro cucito sul dorso (codex) - ha molteplici significati. Nel linguaggio giuridico inizialmente per codice si intendeva una raccolta di materiali normativi come è appunto accaduto per il Codex inserito nel Corpus iuris civilis di Giustiniano, che raccoglieva un insieme di Constitutiones imperiali. La successiva evoluzione della teoria giudica e dei sitemi normativi ha portato ad individuare come Codice non più una raccolta di leggi precedenti (compilatio), bensì una legge del tutto nuova, che si caratterizzi per le note della organicità (trattandosi di uno strumento normativo volto a disciplinare complessivamente un intero settore dell’esperienza giuridica), della sistematicità (che si esprime nel coordinamento logico del materiale normativo e delle singole regole, definizioni, istituti), della universalità ed eguaglianza (in quanto la disciplina del codice si rivolge in egual modo a tutti i consociati, svolgendo una funzione unificatrice degli statuti giuridici delle diverse classi sociali). Per la sua funzione innovatrice e uniformatrice il codice implica l’abrogazione di tutto il diritto precedente vigente nella materia codificata, e l’accentramento della disciplina nell’intero territorio contemplato, onde favorire l’univocità delle soluzioni e la facilità nel reperimento e nella consultazione del materiale normativo, accentrato in un unico strumento. Qualificare una legge come codice di un intero settore postula che il legislatore intenda dare a quella materia un assetto organico e non precario, ma tendenzialmente di lungo periodo, sostenuto da soluzioni tecniche da inserire in un saldo reticolato sistematico di principi e regole costanti, chiare e coerenti.

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La nozione di codice nel pensiero giuridico

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Nella storia giuridica moderna - a partire dal XVII e XVII secolo - ha assunto importanza rilevante il movimento per la codificazione, sia in campo costituzionale (si pensi alle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo approvate in Francia nel periodo della rivoluzione, oppure alla Costituzione federale americana del 1787, alle lotte politiche negli Stati italiani preunitari per la concessione di una costituzione o Statuto), sia nel campo del diritto privato. In questo specifico terreno il Medioevo aveva lasciato una situazione di estrema complessità, con una molteplicità di fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico, diritti locali, legislazione del potere centrale) cui corrispondeva una spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, ossia di organismi investiti del potere di applicare le leggi (ius dicere); il tutto con la conseguenza di favorire l’incertezza e l’arbitrio. Si chiedeva, perciò di spazzar via il vecchio, pletorico e confuso materiale, sostituendolo con leggi organiche, caratterizzate da semplicità, chiarezza, uniformità, certezza, razionalità. Un tale intento era spinto dall’aspirazione ad introdurre norma da considerare addirittura universali ed eterne, perché dettate dalla, e conformi alla, ragione: non a caso l’idea di codice è storicamente un prodotto dell’Illuminismo, e dunque della fiducia nella capacità dell’uomo di costruire un sitema normativo e logicasmente ordinato, e perciò privo di lacune. Tuttora nei Paesi di diritto scirtto, come sono quelli dell’Euoropa contentale, il codice civile, sebbene abbia perduto molto del suo valore ideologico, riveste un ruolo di centralità nel sistema del diritto privato: regolando i soggetti (sia le persona fisiche che quelle giuridiche, con identità di trattamento per tutti ed abolizione di ogni privilegio individuale), i beni e i diritti sulle cose ( e quindi, in particolare la proprietà), l’attività (e quindi, in particolare,

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La nozione di codice nel pensiero giuridico

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Nella storia giuridica moderna - a partire dal XVII e XVII secolo - ha assunto importanza rilevante il movimento per la codificazione, sia in campo costituzionale (si pensi alle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo approvate in Francia nel periodo della rivoluzione, oppure alla Costituzione federale americana del 1787, alle lotte politiche negli Stati italiani preunitari per la concessione di una costituzione o Statuto), sia nel campo del diritto privato. In questo specifico terreno il Medioevo aveva lasciato una situazione di estrema complessità, con una molteplicità di fonti normative intersecantisi (diritto romano, diritto canonico, diritti locali, legislazione del potere centrale) cui corrispondeva una spesso disordinata pluralità di giurisdizioni, ossia di organismi investiti del potere di applicare le leggi (ius dicere); il tutto con la conseguenza di favorire l’incertezza e l’arbitrio. Si chiedeva, perciò di spazzar via il vecchio, pletorico e confuso materiale, sostituendolo con leggi organiche, caratterizzate da semplicità, chiarezza, uniformità, certezza, razionalità. Un tale intento era spinto dall’aspirazione ad introdurre norma da considerare addirittura universali ed eterne, perché dettate dalla, e conformi alla, ragione: non a caso l’idea di codice è storicamente un prodotto dell’Illuminismo, e dunque della fiducia nella capacità dell’uomo di costruire un sistema normativo e logicamente ordinato, e perciò privo di lacune. Tuttora nei Paesi di diritto scritto, come sono quelli dell’Euoropa contentale, il codice civile, sebbene abbia perduto molto del suo valore ideologico, riveste un ruolo di centralità nel sistema del diritto privato: regolando i soggetti (sia le persona fisiche che quelle giuridiche, con identità di trattamento per tutti ed abolizione di ogni privilegio individuale), i beni e i diritti sulle cose ( e quindi, in particolare la proprietà), l’attività (e quindi, in particolare, il contratto), nonché i principi fondamentali sulla responsabilità civile, il codice, sebbene non abbia pretese esaustive della disciplina dei rapporti tra i privati, si pone come necessario elemento di integrazione e supporto di qualsiasi altra legge (che, proprio per questo, si dice, rispetto al codice, speciale, ossia di specie, perché solo il codice è l’unica legge a carattere generale).

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I vari tipi di codice nell’età moderna

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Il primo grande codice di diritto privato dell’età moderna è stato il Codice civile dei francesi, detto anche Codice Napoleone, emanato nel 1804, che, sorto nel clima culturale della Rivoluzione francese, favorì efficacemente la diffusione dei principi dell’eguaglianza tra i cittadini (parità di trattamento a parità di condizioni), l’idea del primato del diritto di proprietà (si consideri che nel precedente sistema feudale la proprietà terriera era gravata da diritti del sovrano e dei ceti nobiliari, che si esprimevano attraverso l’imposizione di oneri economici e rendite, che dovevano essere pagate da chi effettivamente lavorava il fondo e che ponevano ostacoli di varia natura alla libera circolazione della proprietà delle terre), il principio della libertà dei commerci e delle attività economiche tra i privati. Il codice Napoleone, sia per l’avanzato modello della società che rispecchiava, sia per il grado di raffinatezza tecnica e di rigore logico, ha avuto molto successo, tanto da essere stato pressoché integralmente adottato in numerosi altri Paesi e da essere tuttora vigente in Francia, sia pure attraverso, ovviamente, numerosi adattamenti.
Nel nostro Paese la vita dei codici, compreso il codice civile, è stata particolarmente travagliata. Tralasciando i codici degli Stati preunitari (per lo più non autentici codici, ma semplici raccolte di legislazione preesistente), dopo l’unificazione del Regno d’Italia fu emanato il codice civile del 1865 (pe larga parte ispirato al codice francese), insieme ad un separato codice di commercio. Quest’ultimo fu sostituito nel 1882 da un nuovo codice di commercio. Ma già nel 1938 cominciarono ad essere emanati singoli libri di un nuovo codice civile, promulgato per intero nel 1942, e nel quale fu - all’ultimo momento - assorbito anche il codice di commercio.
La scelta di emanare un nuovo codice nel corso di una grande guerra - e pertanto alla vigilia di inevitabili profondi mutamenti sociali - non fu certo felice. E difatti nel dopoguerra sono stati numeroso i settori in cui sono state emanate leggi che hanno profondamente modificato il tessuto originario del codice (basti pensare alla riforma del diritto di famiglia, alle rilevanti modifiche in tema di lavoro subordinato, locazioni, società commerciali, ecc.). Va tuttavia sottolineato che l’ideologia imperante al momento dell’emanazione del codice civile (la dittatura fascista era ancora al potere, anche se si era alla vigilia della sua caduta) non ha lasciato tracce significative nel codice, maturato ad opera dei giuristi formatisi nel precedente clima liberal-borghese, e perciò sostanzialmente indifferenti alle concezioni ufficiali del fascismo. Si può così spiegare la tenuta del codice, che appare ancora idoneo a svolgere la sua funzione di documento centrale e fondamentale nel regolamento dei rapporti inter-privati.

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Il rapporto tra il codice civile e la Costituzione

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Il codice non esaurisce il sistema del diritto civile. Da un lato occorre tener presenti anche i principi dettati con la Carta costituzionale del 1948, che, sebbene successiva al codice di soli pochi anni, si dimostra ben più sensibile alle esigenze di perequazione sociale, di elevazione dei ceti meno abbienti, di partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; dall’altro è venuta costantemente crescendo di importanza la legislazione speciale, che lungi dal rappresentare, come un tempo, una sorta di completamento del codice, oggi costituisce - sia quantitativamente che qualitativamente - un mondo estremamente variegato e complesso, tale da non consentire più di considerare necessariamente i principi codicistici come i più importanti. È dunque compito dell’interprete quello di sforzarsi di restituire ai frammenti sparsi dell’ordinamento sistematicità e coerenza.
Naturalmente anche i codici - essendo approvati con leggi ordinarie - sono soggetti al controllo di legittimità della Corte costituzionale e possono essere sempre modificati (o addirittura, in tutto o in parte, abrogati) da leggi ordinarie successive; spesso le modifiche vengono apportate con la tecnica della Novella, ossia sostituendo direttamente il testo di un articolo, ferma la numerazione originaria, o aggiungendo articoli nuovi.

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Cosa si richiede per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi?

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Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede, oltre all’approvazione da parte delle due Camere: a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica (art. 73 Cost.); b) la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (art. 73, ult. comma, Cost.); c) il decorso di un periodo di tempo, detto vacatio legis, che va dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, e che di regola è di quindici giorni, salvo che la legge stessa stabilisca un termine diverso, più lungo o più breve, fino al limite dell’entrata in vigore immediata al momento della pubblicazione.
La disciplina costituzionale è integrata dal Testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana. Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, in via di fatto, non ne abbia conoscenza. Vale infatti il principio tradizionale per cui ignorantia iuris non excusat, cosicché nessuno può invocare a propria giustificazione, per evitare una sanzione o comunque sottrarsi agli effetti della norma, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge (art. 5 c.p.). La Corte costituzionale ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile.

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Come avviene l’abrogazione di una legge e come può essere?

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Una disposizione di legge - come di qualsiasi altro atto normativo - viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia (anche se una disposizione abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione, e può anche essere previsto un apposito regime transitorio). Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore (art. 15 disp. prel. c.c.).
L’abrogazione può essere espressa o tacita. Si ha l’abrogazione espressa quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore, o suoi singoli articoli. Si ha abrogazione tacita se, in assenza di una dichiarazione esplicita volta a sancire l’abrogazione di disposizioni previgenti, le norme posteriori: a) sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti (sussiste incompatibilità quando fra le disposizioni successive e quelle precedenti vi sia una contraddizione tale da renderne impossibili la contemporanea applicazione); b) introducono una nuova regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. Una legge può inoltre essere abrogata mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali; la proposta di abrogazione è approvata a maggioranza semplice dei votanti, purché alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritti (art. 75 Cost.).

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In cosa consiste la deroga?

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La deroga si ha quando una nuova norma pone, ma solo per specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla norma precedente, la quale continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi (lex specialis posterior derogat generali).

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Illegittimità costituzionale e abrogazione

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La dichiarazione d’incostituzionalità di una legge (o di un solo articolo, o di un comma o di una qualsiasi parte) ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire, ex nunc (e pertanto la legge, perché abrogata, può essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionale annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicché non può più essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure a fatti già verificatisi in precedenza. Restano salvi soltanto i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato (art. 136 Cost.), ossia una sentenza contro la quale non siano più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione previsti dal codice di procedura civile. L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria.

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Irretroattività e retroattività della legge

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Una norma giuridica ricollega al verificarsi di una data fattispecie (ossia di un fatto o di una serie di fatti) una certa conseguenza giuridica (quale, ad es., l’acquisto o la perdita di un diritto, il sorgere o l’estinguersi di un obbligo, la soggezione ad una sanzione, ecc.). La fattispecie, descritta in astratto dalla norma, determina la conseguenza giuridica ivi prevista quando si verificano in concreto i fatti astrattamente previsti da quella norma. È logico, quindi, che quanto meno di regola, la norma si applichi alla fattispecie in essa descritta (in astratto) che si verifica (in concreto) successivamente all’entrata in vigore della norma stessa. E difatti l’art. 11, comma 1, delle preleggi stabilisce che La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Si dice, invece, retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore.
La irretroattiva della legge deve considerarsi principio di civiltà giuridica, in quanto posto a presidio della certezza del diritto e a garanzia dei consociati, la cui condotta non può essere valutata in base a regole introdotte ex post facto. Tuttavia nel nostro ordinamento soltanto la norma incriminatrice penale non può in alcun caso essere retroattiva: nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (art. 2 c.p., principio elevato a rango di disposizione costituzionale dell’art. 25 comma 2, Cost.; lo stesso principio è affermato in materia di sanzioni amministrative dall’art. 1 della L. 24 novembre 1981. n. 689).
La retroattività delle leggi di ambito privatistico non è invece in assoluto preclusa; al riguardo si è espressa in più occasioni la Corte costituzionale, ritenendo giustificata l’efficacia retroattiva della norma solo se motivata dall’esigenza di tutelare diritti e beni di rilievo costituzionale o tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e purché non abbia l’effetto di produrre ingiustificate disparità di trattamento o la lesione di legittimi affidamenti.
Efficacia retroattiva hanno, poi, le cosiddette leggi interpretative, ossia le leggi emanate per chiarire il significato di norma antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime, quand’anche anteriori alla emanazione della legge interpretativa. Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore (al riguardo si usa l’espressione ius superveniens). Vengono invece, salva diversa disposizione legislativa, rispettati gli effetti delle sentenza già passate in giudicato.

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La successione delle leggi e i suoi problemi

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La soluzione dei problemi posti dal succedersi delle leggi non è sempre agevole, quando si tratti di fattispecie verificatesi anteriormente all’entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui effetti perdurano nel tempo. In alcuni casi il legislatore ha cura di regolare il passaggio tra la legge vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. Per esempio con la riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151) il legislatore ha introdotto come regime generale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi quello della comunione legale dei beni e ne ha previsto l’applicazione anche alle coppie che si fossero sposate prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ma ha anche stabilito un periodo transitorio durante il quale ciascuno dei coniugi, con una propria dichiarazione unilaterale, poteva impedire l’applicazione del regime di comunione, sicché la coppia restava assoggettata al regime della separazione dei beni.
Ma può avvenire che manchi una specifica regola di disciplina intertemporale. Ed allora sorgono delicate questioni che genericamente vengono designate come questioni di diritto transitorio, o di successione di leggi nel tempo.
Due teorie sono state a questo proposito sostenute: a) la legge nuova non può colpire i diritti quesiti, che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito), b) la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto).
La prima teoria viene in genere criticata in base al rilievo per cui non sempre è agevole la distinzione che essa introduce tra diritto quesito, ossia già maturato nel patrimonio di un soggetto, e la semplice aspettativa dell’acquisto di un diritto, che si verifica quando la sequenza che ne determina l’insorgere non sia ancora integralmente compiuta.
La teoria del fatto compiuto comporta che la legge - se non ne sia disposta la retroattività - non si applica alle fattispecie realizzatesi anteriormente alla sua entrata in vigore. La legge non si applica neppure ai rapporti esauriti al tempo della sua entrata in vigore. Ad es., dovrebbe ritenersi estinto un diritto, una volta decorso il termine fissato per la sua prescrizione estintiva, anche se una nuova norma, entrata in vigore successivamente al momento in cui la prescrizione di quel diritto è già maturata, disponesse un nuovo termine prescrizionale più lungo del precedente.
Anche la teoria dei fatti compiuti, tuttavia, non offre che criteri meramente indicativi, e soprattutto lascia aperti i problemi di soluzione dei rapporti pendenti o comunque di tutte quelle situazioni in cui una fattispecie verificatasi nell’imperio della legge previgente non abbia esaurito tutti i propri effetti giuridici; effetti che, però, la nuova disciplina connota diversamente rispetto a quella vigente all’epoca del concepimento del fatto.
In definitiva, occorre sempre risalire alla volontà del legislatore e domandarsi se, in vista di nuove esigenza sociali, egli intenda con la nuova norma attribuire efficacia immediata al regolamento disposto ed estenderlo, pertanto, ai fatti compiuti sotto il vigore di quella preesistente (ma i cui effetti non si siano esauriti), oppure limitarne l’applicazione alle sole vicende materiali verificatesi sotto l’impero della nuova disciplina. Si parla, invece, di ultrattività allorquando una disposizione di legge, derogando al principio tempus regit actum, stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore.

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Cosa s’intende per applicazione della legge?

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Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono l’ordinamento giuridico. Pertanto, se si tratta di norme di organizzazione o di struttura, la loro applicazione consiste nella effettiva creazione degli organi previsti e nel loro funzionamento. Se si tratta di norma di condotta, la loro applicazione consiste nel non fare ciò che è proibito e nel fare ciò che è doveroso. In particolare il diritto privato regola l’agire degli individui nei rapporti tra loro. Tenere un comportamento coerente con le regole poste dall’ordinamento, prestare ad esse spontanea osservanza, è il primo modo di dare attuazione alle norme (es.: pagare un debito; rispettare la proprietà altrui, ecc.). Qualora la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricordo all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad applicare la legge, pronunciando i provvedimenti (sentenza, ordinanza, decreto) previsti dal diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della parte istante.

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In cosa consiste l’interpretazione della legge?

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L’‘interpretazione è attività tipica del giurista, che deve confrontarsi con il testo normativo per comprenderne il valore precettivo, ossia la regola affermata dall’enunciato legislativo. Interpretare, si legge in Cicerone, consiste nel trarre un significato da segni oscuri (obscura explanare interpretando). Interpretare un testo, e in particolare un testo normativo, dunque, non vuol dire accertare (conoscere) un significato univoco che il testo in sé già esprimerebbe, bensì attribuire un senso, decidere (scegliere) che cosa si ritiene che il testo effettivamente significhi tra le plurime letture che spesso un testo consente e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua applicazione. L’attività di interpretazione non può mai, dunque, esaurirsi nel mero esame dei dati testuali. In primo luogo, infatti, non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali. E difatti lo stesso legislatore (art. 12 disp. prel. c.c.) - dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro significato proprio (ma quasi nessun vocabolo ha un significato univoco, e quindi già la scelta del significato proprio di ciascuna parola, nel singolo contesto, è opera dell’interpretee) - impone di tener conto altresì della intenzione del legislatore, concetto che l’interprete non può ricostruire se non avvalendosi di elementi extra-testuali.
In secondo luogo, gli enunciati normativi si riferiscono a situazioni ipotetiche e definite in via generale ed astratta: spetterà all’interprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina dettata dalla singola norma, oppure no, ed a tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di estensione o di integrazione delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-testuali o meta-testuali.
In terzo luogo le formulazioni delle leggi appaiono non di rado in conflitto tra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti, a criteri cronologici, a criteri di specialità.
In quarto luogo, di fronte a ciascun caso singolo difficilmente si può applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, opportunatamente coordinate e poste a confronto tra loro per trarne la disciplina del caso concreto: questa operazione è detta interpretazione sistematica, ossia sulla base dell’intero sistema dell’ordinamento. Sotto questo profilo assume grande importanza l’ancoraggio dell’attività ermeneutica ai principi e ai valori fondamentali contenuti nella Costituzione, poiché come ha ribadito la stessa Corte costituzionale in più occasioni, tra più significati possibili che si possono attribuire a una norma deve essere preferito quello conforme alla Costituzione. Ed anzi una norma può essere dichiarata incostituzionale soltanto quando non sia possibile dare un’interpretazione conforme a costituzione: si parla a tal proposito di interpretazione costituzionalmente orientata.

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Ogni testo richiede di essere interpretato?

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Sì. L’attribuzione a un documento legislativo del senso più immediato e intuitivo viene detta interpretazione dichiarativa. Il canone metodologico in claris non fit interpretatio prescrive di attenersi, ovunque sia possibile, se la lettera della legge non è oscura, ad una interpretazione dichiarativa. Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che apparirebbe, a prima vista, esserle proprio, e cioè attribuisce alla legge una portata diversa da quella che il suo tenore letterale potrebbe suggerire, si parla di interpretazione correttiva, nelle due forma dell’interpretazione estensiva e dell’interpretazione restrittiva (che può giungere fino al limite dell’interpretazione abrogante): espressioni tutte che implicitamente si ispirano alla credenza che il discorso legislativo abbia un significato proprio, che precede ed è indipendente dall’attività dell’interprete, occultando il fatto che il documento è muto senza l’interprete, essendo il suo significato il risultato e non il presupposto dell’attività interpretativa.
Talvolta nell’uso si contrappone all’interpretazione della legge l’integrazione della legge, per distinguere tra l’attribuzione di significato ad un determinato documento normativo e l’individuazione di una regola che il documento normativo non consentirebbe ad una sua prima ed immediata lettura, ma che si ritiene possa egualmente esserne ricavata con un più accurato esame: contrapposizione, quindi, che non va accettata, rientrando anche l’integrazione della legge nell’attività di interpretazione.

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L’interpretazione dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa

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Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, interpretazione dottrinale e interpretazione autentica.
L’attività interpretativa si traduce in provvedimenti di efficacia vincolante quando sia compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale). Però si deve chiarire che l’interpretazione della disposizione, attraverso cui il giudice giunge alla decisione del caso sottoposto al suo esame, svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole parti del giudizio, che sono le uniche destinatarie del provvedimento del giudice. Una sentenza è però idonea ad assumere anche valore di precedente nei confronti di altri casi simili, in quanto l’interpretazione di una disposizione normativa sottesa alla sentenza e le argomentazioni logico-giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono essere assunte a modello da parte di altri giudici a fini della soluzione di casi analoghi.
Su un altro piano si pone l’interpretazione dottrinale, che è costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche, che si preoccupano di raccogliere il materiale utile all’interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative, con uno sforza di grande importanza pratica, in difetto del quale quanti operano nella concreta esperienza quotidiana sarebbero privati di un appoggio fondamentale nelle scelte che sono di continuo chiamati ad effettuare con rapidità, e che escludono la possibilità di dedicarsi ad analisi spesso ardue del materiale normativo.
Non costituisce, infine, vera attività interpretativa la c.d. interpretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana talvolta apposite disposizioni per chiarire il significato di altre preesistenti. La norma interpretativa, come ogni altra norma giuridica, ha carattere vincolante: ossia il legislatore vuole che ci deve applicare la norma precedente le attribuisca il senso voluto dalla nuova disposizione, Questa ha, perciò, efficacia retroattiva: infatti essa chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente.
Appunto in vista dell’efficacia retroattiva della norma interpretativa è assai importante distinguerla da quella novativa che ha efficacia solo per i fatti compiuti successivamente alla sua entrata in vigore (ex nunc).
Talora la natura interpretativa di una norma è esplicitamente dichiarata (es. quando la nuova legge dispone che una certa norma preesistente si interpreta nel senso che…), in altri casi deve essere dedotta in via interpretativa, con le intuibili difficoltà e incertezze. Non si può, peraltro, considerare davvero interpretativa la legge che, sebbene dichiarata espressamente tale, in realtà non sia diretta affatto a sciogliere un dubbio interpretativo creato dalla norma precedente, bensì a modificarla. Giova tener presente che la retroattività della legge interpretativa non incide, salva contraria disposizione, sul giudicato formatosi sotto l’impero della legge precedente.

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Cosa s’intende con il termine giurisprudenza?

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In termini tecnici con l’espressione giurisprudenza si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla costante, o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici.

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Il valore del precedente

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Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è limitato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione espresso dalla sentenza, poiché, di regola, non è attribuita ai precedenti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione di successivi casi analoghi (diversamente avviene negli ordinamenti detti di common law, propri della tradizione giuridica anglosassone, in cui le pronunce delle Corti concorrono alla creazione del diritto oggettivo); pertanto ciascun giudice è libero di adottare l’interpretazione che ritenga preferibile, anche eventualmente in contrasto con pronunce della Corte di Cassazione.
Tuttavia l’interpretazione giudiziale ha di fatto sempre avuto una notevole autorità, a causa della tendenza degli orientamenti della giurisprudenza a consolidarsi (anche in regione del carattere professionale della magistratura, istituzionalizzata come apparato dotato di autonomia e indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato).
Recenti leggi, nel tentativo di accrescere l’uniformità delle prassi interpretative e dunque la prevedibilità delle decisioni (e quindi la certezza del diritto), hanno rafforzato il valore del precedente. L’art. 360-bis c.p.c. prevede l’inammissibilità del ricorso alla Corte di cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme al pregresso orientamento della Corte Suprema in argomento, e i motivi di ricorso non offrano elementi per modificare quell’orientamento.
Ancora, nell’ambio del processo civile, è conferita una sorta di vincolatività alle sentenze della Cassazione a sezioni unite; infatti, mentre i giudici di merito, in conformità ai principi generali, restano liberi di emanare decisioni difformi, non così invece le sezioni semplici della medesima Corte di Cassazione, in relazione alle quali l’art. 374, comma 3, c.p.c. prevede che se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricordo.
Sono dotate di vincolatività le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’unione europea. Del tutto peculiare è il ruolo attribuito alle sentenza emanate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo (che ha sede a Strasburgo), la cui vincolatività nei confronti dei giudici nazionali è anche di tipo ermeneutico, nel senso che i giudici nazionali devono far riferimento senz’altro alle norme della Cedu, così come intese dalla Corte Europea, nell’applicare le norma dell’ordinamento italiano e di quello comunitario.

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Quali sono le regole dell’interpretazione?

A

L’indagine dell’interprete non può limitarsi alla lettera della legge. L’art. 12, comma 1, delle preleggi espressamente impone di valutare non soltanto il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, ma anche l’intenzione del legislatore. Quest’ultimo concetto rimanda non tanto ai concreti propositi soggettivi di un inesistente legislatore (posto che nei sistemi moderni l’attività legislativa non è svolta da un individuo, ma da organi collegiali ed è spesso frutto di compromessi e mediazioni tra le posizioni delle diverse forze politiche presenti nelle assemblee parlamentari), bensì alla funzione che la norma persegue come strumento di disciplina della vita associata, la c.d. ratio legis (criterio di interpretazione teleologico). Si tratta quindi di indagare la finalità obiettiva della norma, alla luce della materia regolata, dei risultati perseguiti dalla legge, dei valori del sistema giuridico.
A questo scopo si possono utilizzare anche elementi tratti dall’attività di elaborazione delle leggi, i lavori preparatori, i quali però offrono soltanto indicazioni di massima, di per sé non decisive. Soprattutto va detto che l’individuazione dello scopo della legge (della sua ratio) più che la premessa dell’interpretazione ne rappresenta già un risultato, che tuttavia aiuta a discernere tra i plurimi possibili significati del testo, facendo preferire quello che appare più coerente con la funzione che la norma persegue.
Vi sono peraltro numerosi criteri cui l’interprete si rivolge:
a) il criterio logico, attraverso l’argumentum aa contrario (volto ad escludere dalla norma quanto non vi appare espressamente compreso), l’argumentum a simili (volto ad estendere la norma per comprendervi anche fenomeni simili a quelli risultanti dal contenuto letterale della disposizione, assumendo tale somiglianza come determinante per una identità di disciplina), l’argumentum a fortiori (volto ad estendere la norma in modo da includervi fenomeni che a maggior ragione meritano il trattamento riservato a quello risultante dal contenuto letterale della disposizione), l’argumentum ad absurdum (volto ad escludere quell’interpretazione che dia luogo ad una norma assurda);
b) il criterio storico: nessuna disposizione spunta all’improvviso in un ordinamento; l’analisi delle motivazioni con cui un istituto è stato introdotto in un sistema giuridico precedente, delle modifiche che esso ha via via subito, del modo con cui è stato interpretato ed applicato, è sempre di grande utilità per cogliere la portata che ad una disposizione va attribuita nel momento attuale;
c) il criterio sistematico. Per determinare il significato e la portata di una disposizione è indispensabile collocarla nel quadro complessivo dell’ordinamento, onde evitare contraddizioni e ripetizioni, istruire opportuni coordinamenti, prevenire la formazione di vuoti normativi (lacune);
d) il criterio sociologico: la conoscenza degli aspetti economico-sociali dei rapporti regolati è spesso illuminante per pervenire ad una interpretazione congruente con la realtà disciplinata e su cui quelle regole sono destinate ad avere rilievo;
e) il criterio equitativo: volto ad evitare interpretazioni che contrastino con il senso di giustizia della comunità, favorendo invece soluzioni equilibrate degli interessi confliggenti e che l’interprete deve sempre valutare comparativamente.

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Cos’è e perché viene applicata l’analogia?

A

È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero ambito dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e minuzioso. È inevitabile, infatti, che si presentino casi che nessuna norma di legge ha espressamente previsto e regolato (le c.c. lacune dell’ordinamento). Il problema delle lacune non può essere risolto da uno sforzo di previsione casistica: anzi una tecnica normativa esasperatamente analitica finisce per aggravare il rischio di incontrare casi non contemplati, rispetto ai quali rimane incerta la disciplina da applicare proprio perché il fenomeno materiale da regolare non rientra nella casistica predefinita. Inoltre l’evoluzione scientifica, tecnica, sociale, economica, crea di continuo situazioni materiali nuove, che nessuna norma positiva prevede e disciplina. Non potrebbe, tuttavia, rifiutarsi di decidere, sotto pena di rendersi responsabile di denegata giustizia, omettendo un atto del proprio ufficio. Perciò l’art. 12, comma 2, delle preleggi dispone che il giudice - quando non sia riuscito a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi, né applicando una norma che lo contempli direttamente, né applicando una norma che pur non contemplandolo direttamente possa essere interpretata estensivamente fino ad abbracciarlo - deve procedere applicando per analogia le disposizioni che regolino casi simili o materie analoghe, e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Dunque il procedimento analogo consiste nell’applicare ad un caso non regolato (in quanto per esso non si è trovata nessuna orma che lo contempli, neppure ricorrendo ad un’interpretazione estensiva della portata della norma che regoli la fattispecie più prossima a quella da decidere) una norma non scritta desunta da una norma scritta, la quale, però è dettata per regolare un caso diverso, sebbene simile a quello da decidere. Di due entità può dirsi che sono simili se hanno qualche elemento in comune: il che pone il problema di comprendere che cosa debba intercorrere di comune tra le due fattispecie messe a confronto, quella oggetto della norma scritta presa in considerazione e l’altra, oggetto della lite, priva di specifica disciplina, per consentirci di concludere che tra i due casi sussiste una somiglianza o, appunto, analogia tale da consentire di applicare alla seconda fattispecie la regola dettata dal legislatore per la prima.
Ora, quell’elemento di contatto, unificante, deve consistere proprio nella fondamentale giustificazione della disciplina del caso: l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pure il caso non regolato merita di essere assoggettato al regime previsto per quello espressamente considerato dalla legge. Così, ad es., se una disposizione è dettata per i lavoratori dipendenti, ove la sua giustificazione vada rintracciata nella circostanza che si applica a dei dipendenti non potrà invocarsene un’applicazione analogica a lavoratori autonomi; ove, invece, la sua giustificazione vada rintracciata nella circostanza che essa è stata dettata per dei lavoratori, quale che sia il tipo di contratto in forza del quale prestano la loro opera, ecco che si apre lo spazio per un’applicazione analogica anche ad altri lavoratori, sebbene autonomi.
Si spiega, dunque, il tradizionale insegnamento secondo cui l’analogia si fonda su un’identità di ratio, ossia sul riconoscimento di una finalità della norma positiva che ne giustifica l’operare anche nel caso (simile, ma) non contemplato dalla legge.
L’art. 12 delle preleggi autorizza non solo il ricorso alla analogia legis, ossia alla applicazione in via analogica ad un caso non regolato di singole disposizioni ritenute adatte a regolare quella fattispecie (sebbene dettate con riferimento a ipotesi diverse, ma, appunto, analoghe), ma pure, se il caso rimane ancora dubbio perché non si rinviene nell’ordinamento una norma analogicamente ad esso applicabile, il ricordo alla analogia iuris, ossia ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Il caso viene deciso ricavando una norma non scritta non già da specifiche disposizioni, che, pur dettate per differenti casi, vengono applicate a quello in esame, bensì addirittura estrapolando la regola solutoria del caso dubbio dai generali orientamenti del sistema legislativo. Si tratta, quindi, di un’operazione ontologicamente diversa dall’applicazione analogica di una specifica norma.

73
Q

Il ricorso all’analogia ha dei limiti?

A

Sì, esso è sottoposto a limiti: l’analogia non è consentita né per le leggi penali, né per quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi.
Il divieto si giustifica, in relazione alle normi penali, per il principio di stretta legalità che caratterizza le norma incriminatrici: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto compiuto. Il divieto di applicazione analogica riguarda le sole norma incriminatrici o comunque in malam partem, ossia volte a stabilire un trattamento deteriore per il reo.
In relazione alle norme che abbiano carattere di eccezione, ossia di deroga, a precetti di ordine generale, il divieto di analogia si giustifica con la necessità logica di non ampliare le deroghe, privilegiando, di fronte ai casi non regolati, la disciplina normale e non quella eccezionale.
Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali ed eccezionali non vale per l’interpretazione estensiva, con la quale, secondo l’insegnamento corrente, ci si limita ad adeguare la portata letterale della norma all’effettiva volontà legislativa. In effetti, tuttavia, la distinzione, nel singolo caso, tra una interpretazione estensiva di una norma eccezionale (consentita) e una applicazione per analogia (vietata) appare quanto mai ardua; così come non è, in molti casi, agevole la stessa determinazione della natura eccezionale di una norma, che la rende insuscettibile di interpretazione analogica.

74
Q

Cos’è e perché nasce il diritto internazionale privato?

A

Gli ordinamenti primitivi sono caratterizzati da una rigorosa aderenza al principio di territorialità: il diritto vigente in ciascun ordinamento si applica a tutti, cittadini e stranieri, coloro i quali si trovino nel territorio sul quale l’autorità politica dalla quale l’ordinamento proviene estende la propria sovranità. Questo principio vige ancora, in genere, per il diritto pubblico ed in particolare per le norme di polizia e di diritto penale, ma non per il diritto privato. Nell’ambito dei rapporti di diritto privato può accadere che la fattispecie concreta presenti qualche elemento di estraneità rispetto al sistema giuridico italiano: un cittadino sposa una francese. uno straniero acquista beni in Italia, una coppia italiana adotta un bambino straniero, due inglese stipulano un contratto a Roma o un italiano e un tedesco concludono un accordo in Germania. In simili casi si pone il dubbio di quale debba essere l’ordinamento competente a regolarli. Tutto sarebbe semplice se al mondo esistesse un solo diritto uniforme, cioè eguale dappertutto; ma il diritto uniforme è raro e poco esteso. In alcuni casi regole uniformi sono stabilite da convenzioni internazionali: tuttavia neppure le convenzioni offrono una risposta sufficiente, perché vincolano gli Stati che vi aderiscono e si occupano soltanto si specifiche materie (es. la vendita internazionale di beni; i trasporti internazionali). In ciascun Paese, pertanto, vengono elaborate norme di diritto internazionale privato: si tratta di regole che stabiliscono quale tra varie leggi nazionali, che siano tutte astrattamente applicabili ad un rapporto che presenta elementi di collegamento con ciascuna di esse, vada applicata in ogni singola ipotesi.
In realtà la definizione diritto internazionale privato, pur recepita nel lessico legislativo, è per più aspetti imprecisa e fuorviante. Al riguardo occorre chiarire:
a) che il c.d. diritto internazionale privato, sebbene venga tradizionalmente denominato così, non è davvero un diritto internazionale: tale è il c.d. diritto internazionale pubblico, ossia il diritto che regola i rapporti tra Stati o soggetti internazionali (es. le organizzazioni internazionali, come l’ONU, ecc.) e che ha fonte nella consuetudine dei rapporti internazionali o in specifici accordi tra Stati; invece il diritto internazionale privato è diritto interno e ha fonte in atti normativi propri dei singoli ordinamenti. Pertanto ciascun Paese, salvi i vincoli derivanti da convenzioni internazionali cui abbia aderito, è arbitro del proprio diritto internazionale privato, le cui disposizioni possono non coincidere con quelle adottate da altri ordinamenti;
b) che il c.d. diritto internazionale privato non abbraccia, in effetti, solo norme relative a rapporti giuridici tra privati, ma disciplina anche altri fenomeni; per esempio contiene regole di tipo processuale ( ad es. il diritto internazionale privato italiano stabilisce quando sussista la giurisdizione italiana rispetto ad uno straniero, quando una sentenza straniera possa produrre effetti in Italia, e via dicendo);
c) che il c.d. diritto internazionale privato è costituito non da norme materiali, ossia che disciplinano la sostanza di taluni rapporti, bensì da regole strumentali, che si limitano cioè ad individuare, rispetto a ciascun rapporto contemplato, a quale ordinamento debba farsi capo per giungere poi, applicando l’ordinamento così individuato, a stabilire come quel rapporto vada disciplinato. Si comprende, dunque, perché le norme in esame di definiscano norme di conflitto, perché risolvono un conflitto tra le leggi potenzialmente applicabili ad una fattispecie trasnazionale.
In sostanza il diritto internazionale privato è l’insieme delle norme di diritto interno che il giudice italiano deve applicare - nel caso in cui debba decidere una controversia relativa ad una fattispecie che presenti elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento giuridico - per individuare la legge regolatrice della fattispecie, ossia l’ordinamento giuridico in base al quale deve essere decisa la controversia. In tal modo può accadere che il giudice italiano debba decidere una controversia facendo applicazione di un ordinamento giuridico straniero.
Il diritto internazionale privato opera secondo una tecnica di rinvio, in quanto individua la legge che il giudice deve applicare, che potrà essere la legge dello Stato cui il giudice appartiene, o quella di un altro Stato, alla quale la norma di diritto internazionale privato faccia appunto rinvio quale fonte regolatrice del rapporto concreto.

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Q

Le fonti del diritto internazionale privato

A

L’importanza del diritto internazionale privato è notevolmente cresciuta nel tempo, per effetto dell’intensificarsi della circolazione delle persone e gli scambi trasnazionali. Il diritto internazionale privato italiano era contenuto prevalentemente negli articoli 17/31 delle preleggi, ma nel tempo è risultato progressivamente inadeguato. Si è così giunti all’approvazione di una legge di riforma globale della materie (L. 31 maggio 1995, n. 218), di ben 74 articoli, che ha disposto, tra l’altro, l’abrogazione degli articoli dal 17 al 31 delle preleggi. Peraltro la disciplina del d.i.p. non è contenuta nella sola, pur centrale, L. n. 218/1995; infatti, parallelamente al processo di aggiornamento sei singoli regimi interni, si è imposto un movimento di uniformazione a livello sovranazionale del diritto internazionale privato, che ha portato all’elaborazione di numerose convenzioni di diritto internazionale privato uniforma, volte, cioè, a porre regole comuni di soluzione dei conflitti di leggi nello spazio, applicate da tutti gli Stati aderenti alle convenzioni, a beneficio della certezza nell’individuazione delle norme applicabili ai rapporti trasnazionali. Un ruolo particolare hanno le fonti europee, ed in particolare i vari regolamenti volti a disciplinare specifici fenomeni di rilevanza trasnazionale nell’ambito dei rapporti tra gli Stati membri. Tali regolamenti trattano sia aspetti di diritto sostanziale (p. es. la legge applicabile ai contratti o alle obbligazioni extracontrattuali), sia aspetti di diritto processuale (quali il riconoscimento dell’efficacia delle sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali, la notificazione degli atti giudiziari, ecc.).

76
Q

Quali sono le fasi per scegliere l’ordinamento competente a disciplinare un rapporto nei cui confronti si profilino elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano?

A

Orbene, per stabilire quale sia l’ordinamento da applicare occorre in primo luogo procedere alla qualificazione del rapporto in questione, evidenziandone la natura: così, ad es., un certo rapporto giuridico può classificarsi come coniugale, o come di successione a causa di morte, di obbligazione contrattuale o extracontrattuale, e via enumerando. Peraltro può accadere che i singoli ordinamenti non seguano identici criteri nel classificare i rapporti giuridici; ecco allora porsi un quesito preliminare, ossia in base a quale ordinamento deve procedersi alla qualificazione di ciascun rapporto. La soluzione generalmente accolta indica la legge del luogo in cui si procede alla disciplina del rapporto, ossia nel quale pende la controversia (lex fori).
Compiuta la qualificazione del rapporto, si deve procedere ad un’ulteriore operazione, ossia all’individuazione della legge che lo deve regolare. A tale scopo la norma di diritto internazionale privato assume un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia ad elemento della fattispecie decisivo per la scelta dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in oggetto, in quanto ordinamento più vicino al caso concreto e appropriato per disciplinarlo.

77
Q

Le principali disposizioni del diritto internazionale privato italiano, quali risultano dalla L. n. 218/1995

A
  • Per quanto riguarda la capacità giuridica delle persone fisiche (art. 20) si applica la c.d. lex originis, ossia la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale.
  • La capacità di agire delle persone fisiche è pure regolata dalla loro legge nazionale (art. 23). Tuttavia, se per un dato atto si deve applicare un diverso ordinamento, il quale prescrive condizioni speciali di capacità di agire, deve applicarsi quest’ultima legge.
  • Gli enti - società, associazioni, fondazioni - sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione (art. 25). Tuttavia si applica la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, o se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti.
  • Per quanto riguarda il matrimonio si distinguono diversi profili:
    a) la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre il matrimonio, sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio (art. 27);
    b) la forma del matrimonio (art. 28), è retta dalla legge del luogo di celebrazione, ma può applicarsi pure la legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o la legge dello Stato di comune residenza in quel momento;
    c) ai rapporti personali tra coniugi si applica la legge nazionale se hanno eguale cittadinanza o, se hanno diversa cittadinanza o più cittadinanze comuni, la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata (art. 29)
    d) i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge applicabile ai rapporti personali, a meno che i coniugi abbiano convenuto per iscritto l’applicabilità della legge dello Stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede (art. 30)
    e) alla separazione personale e allo scioglimento del matrimonio si doveva applicare, ai sensi dell’art. 31 comma 1 della L. n. 218/95, la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio e, in mancanza di legge comune, quella dello Stato nel quale la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata. In argomento è intervenuto il Regolamento n. 1259/2010/UE (Regolamento Roma III), applicabile nel suo complesso a partire dal 21 giugno 2012. Si tratta di un regolamento di applicazione universale, ossia la legge che lo stesso individua come applicabile si applica anche se non sia la legge di uno Stato membro dell’Unione, Esso stabilisce, introducendo un’importante novità, che siano i coniugi a poter designare di comune accorso, per iscritto, la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (artt. 6 e 7). Per evitare però scelte di comodo (c.d. law shopping) deve trattarsi della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi, o dello Stato di cittadinanza di uno di essi o della lex fori. In caso di mancata scelta si applica la legge di residenza atuale, o quella di cittadinanza o la lex fori. Peraltro è importante segnalare che il Regolamento non obbliga i giudici di uno Stato membro, la cui legislazione non preveda il divorzio o non consideri valido il matrimonio il cui procedimento si riferisce, ad emettere una decisione di divorzio in virtù del Regolamento stesso;
    f) quanto alla giurisdizione, per i giudizi di nullità, annullamento, separazione personale e divorzio si può sempre adire il giudice italiano se uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia (art. 32 L. n. 218/95)
  • Le norme di conflitto in materia di filiazione sono state modificate per effetto dell’entrata in vigore del D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154, emanati in attuazione della L. 10 dicembre 2012, n. 219, che ha innovato la disciplina della filiazione. Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, della legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita (art. 33); la stessa legge regola l’accertamento e la contestazione dello stato di figlio. Le condizioni per il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio sono regolate dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene (art.35); la forma del riconoscimento è regolata dalla legge dello Stato in cui esso è fatto o da quella che ne disciplina la sostanza. I rapporti personali e patrimoniali tra genitori e digli sono regolati dalla legge nazionale del figlio (art. 36).
    La riforma della filiazione è imperniata sul principio dell’unicità dello status di figlio, superando la distinzione tra figli nati nel matrimonio o al di fuori di esso (detti un tempo figli naturali): e difatti l’art. 33 comma 4, L. 218/95 sancisce che Sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio.
    Nella stessa logica l’art. 36-bis L. 218/95 stabilisce che, nonostante il richiamo ad altra legge, si applicano in ogni caso le norma del diritto italiano che: a) attribuiscono ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale; b) stabiliscono il dovere di entrambi i genitori di provvedere al mantenimento del figlio; c) attribuiscono al giudice il potere di adottare provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale in presenza di condotte pregiudizievoli per il figlio. Si vuole, in sostanza, che, quale sia la legge regolatrice del rapporto di filiazione, il Giudice italiano possa in ogni caso applicare le regole fondamentali che il nostro ordinamento reputa in goni caso inderogabili.
  • La L. 20 maggio 2016, n.76, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, la cui disciplina è in larga parte mutuata da quella del matrimonio, il quale però rimane istituto riservato alle coppie eterosessuali. Con il D, Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7, il legislatore ha integrato la L. 218/95, disciplinando il trattamento delle unioni civili caratterizzate da elementi di estraneità rispetto all’ordinamento italiano. In base alla nuova disciplina, il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiano con persona dello stesso sesso produce gli effetti non già del matrimonio, bensì dell’unione civile regolata dalla legge italiana. Le regole di conflitto che disciplinano l’unione civile tra persone di diversa nazionalità sono modellate, dal nuovo art. 32-ter, su quelle previste per il matrimonio: la capacità e le altre condizioni per costituire unione civile sono regolate dalla legge nazionale di ciascuna parte al momento della costituzione dell’unione civile, disponendo inoltre che se la legge applicabile non ammette l’unione civile tra persone maggiorenni dello stesso sesso, si applica la legge italiana; quanto alla forma, l’unione civile è valida se è considerata tale dalla legge del luogo di costituzione o dalla legge nazionale di almeno una delle parti o dalla legge dello Stato di comune residenza al momento della costituzione; infine, i rapporti personali e patrimoniali tra le parti sono regolati dalla legge dello Stato davanti alle cui autorità l’unione è stata costituita, potendo comunque il giudice applicare, a richiesta anche di una sola delle parti, la legge dello Stato nel quale la vita comune è prevalentemente localizzata. Le parti possono in ogni caso convenire per iscritto che i loro rapporti patrimoniali siano regolati dalla legge dello Stato di cui almeno una di esse è cittadina o nel quale almeno una di esse risiede. Quanto allo scioglimento dell’unione, esso è regolato dalla legge applicabile al divorzio in conformità al Regolamento Roma III.
  • L’adozione è regolata dal diritto nazionale dell’adottato o degli adottanti se comune, o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti, o da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al momento dell’adozione (art. 38); tuttavia, precisa la norma, quando viene richiesta al giudice italiano l’adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio, si applica il diritto italiano.
  • La successione mortis causa è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte (art. 46). La forma del testamento deve rispettare o la legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto o la legge dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della morte, era cittadino o la legge dello Stato in cui aveva in domicilio o la residenza (art. 48).
    Peraltro anche in materia successoria è intervenuta una recente normativa europea, recata dal Regolamento n. 650/2012/UE del 4 luglio 2012, che riguarda molteplici aspetti: la competenza giurisdizionale a decidere le controversie successorie, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione di decisioni in materia successoria e l’istituzione di un certificato successorio europeo. Il Regolamento innova il criterio fondamentale di individuazione della legge regolatrice della successione, che è quella dello Stato in cui il defunto aveva la propria residenza abituale al momento del decesso e soprattutto introduce un elemento volontaristico: una persona può infatti scegliere come legge regolatrice della propria successione quella dello Stato del quale è cittadino al momento della scelta o al momento della morte: la scelta deve essere espressa e deve rivestire la forma prevista per un atto di disposizione a causa di morte (testamento). Il Regolamento si applica alle successioni delle persone decedute a partire dal 17 agosto 2015.
  • La proprietà, gli altri diritti reali e il possesso dei immobili e mobili sono regolati dalla legge del luogo nel quale i beni si trovano (lex rei sitae, art. 51), che disciplina anche il modo di acquisto e perdita di tali diritti. Per i beni immobili si applica la legge dello Stato di utilizzazione.
  • In materia di obbligazioni il diritto internazionale privato italiano è stato di recente interessato da importanti modificazioni per effetto di convenzioni internazionali e di regolamenti comunitari.
    Per le obbligazioni contrattuali l’art. 57 della L. 218/95 fa rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 19 giugno 1980 (entrata in vigore il 1° aprile 1991). La convenzione ha introdotto un diritto internazionale privato uniforma: ciò significa che tutti gli Stati aderenti si vincolano ad utilizzare identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto contrattuale con elementi di estraneità. Successivamente è entrato in vigore (dal 17 dicembre 2009) il Regolamento n. 593/2008/CE, del 17 giugno 2008, Sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), sicché ogni rinvio fatto alla Convenzione deve intendersi riferito al Regolamento.
    Il regolamento è di applicazione universale. La disciplina, oltre a porre una serie di regole di dettaglio relative alla legge applicabile a specifici contratti e a confermare l’attenzione alla tutela del consumatore, conferma le scelte operate dalla Convenzione, attribuendo prioritaria valenza alla scelta delle parti in ordine alla legge applicabile al contratto tra loro stipulato: si applica dunque anzitutto la legge richiamata da apposita clausola contrattuale (c.d. lex voluntatis), o, in difetto di una scelta espressa, la legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto; collegamento che si presume sussista nei confronti del Paese in cui la parte che deve fornire la prestazione caratteristica ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale o la propria amministrazione centrale.
  • Per quanto riguarda le obbligazioni avente fonte non contrattuale si deve fare riferimento al Regolamento n. 864/2007/CE dell’11 luglio 2007 (Roma III). Si tratta anche in questo caso di un regolamento di applicazione universale. I criteri principali stabiliti dal Regolamento sono i seguenti: le obbligazioni derivanti da un fatto illecito sono regolate dalla legge del paese nel quale il danno si è verificato; le obbligazioni nascenti da arricchimento senza causa, quelle relative alla restituzione di un pagamento ricevuto indebitamente o derivanti da gestione di affari altrui sono disciplinate, se l’obbligazione si ricolleghi ad una preesistente relazione tra le parti, dalla legge della disciplina di quel rapporto, altrimenti dalla legge dell’eventuale residenza comune delle parti o da quella del luogo in cui è avvenuto il fatto.
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Il rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero

A

Il rinvio operato dal nostro diritto internazionale privato ad un ordinamento straniero pone problemi delicati. Anzitutto ci si chiede quid iuris si sceglie nell’ipotesi in cui quell’ordinamento a sua volta, nella stessa situazione, rinvii ad un altro ordinamento. Ad es. il nostro diritto internazionale privato rinvia, per i rapporti tra genitori e figli alla legge nazionale del figlio; ma quest’ultima potrebbe a sua volta, per un determinato caso, rinviare alla legge nazionale del padre, o alla legge del domicilio del figlio. In precedenza l’abrogato art. 30 delle preleggi, proprio per evitare il rischio di una serie successiva di rinvii da un ordinamento all’altro, stabiliva che, quando si doveva applicare una legge straniera, non si tenesse conto del rinvio da essa fatto ad altra legge. Viceversa ora l’art. 13, comma 1. della L. n. 218 stabilisce che si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italiana. Peraltro i commi successivi dello stesso articolo restringono in modo rilevane i casi in cui è ammesso il rinvio successivo.
Il rinvio alle norme di un altro ordinamento pone l’ulteriore, e particolarmente delicato, problema della compatibilità delle disposizioni sostanziali di un ordinamento estraneo, reso applicabile per effetto della norma di conflitto, con i principi fondamentali del nostro ordinamento. L’art. 31 delle preleggi disponeva perciò che in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente o le private disposizioni e convenzioni possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume. Oggi la materia è regolata dall’art. 16, comma 11, L. n. 218/95, il quale ribadisce che la legge straniera non può essere applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. La nuova disposizione non considera più rilevante, in materia, il buon costume; soprattutto va segnalato che la valutazione non riguarda la norma straniera nella sua astratta formulazione, bensì i risultati concreti cui potrebbe condurre la sua applicazione nel caso specifico. L’ordine pubblico di cui è qui questione, non è il c.d. ordine pubblico interno (costituito da tutte le disposizioni che non possono essere derogate dai privati), bensì quello internazionale, che abbraccia solo i fondamentali principi cui l’ordinamento giuridico italiano è ispirato: così, ad es., non si potrebbe consentire l’applicazione di una norma straniera che ammettesse la schiavitù o la poligamia, o che consentisse lo scioglimento del matrimonio per ripudio unilaterale di un coniuge da parte dell’altro.
Il secondo comma del medesimo art. 16 opportunatamente aggiunge che - nel caso operi il ricordato limite di contrarietà all’ordine pubblico - si deve tentare ugualmente di applicare la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. Solo ove manchi tale possibilità si applica la legge italiana.
Il richiamo all’ordine pubblico opera con funzione esclusivamente negativa: esso preclude l’applicazione di nome ritenute incompatibili con il nostro ordinamento. Ma non offre risposta ad un altro problema: quello di assicurare in ogni caso l’applicazione, anche ai rapporti regolati dalla legge straniera, di disposizioni che esprimano principi fondamentali e non derogabili dell’ordinamento italiano. A questo provvede l’art. 17 della L. n. 218/95, cha ha introdotto una regola non presente nelle preleggi, in forza della quale è sempre fatta salva la prevalenza delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera. Ad es. il principio di unità dello status di figlio, o quello per cui entrambi i genitori condividono la responsabilità genitoriale o l’obbligo di mantenimenti, si impongono anche nel caso in cui la legge straniera regolatrice del rapporto disponga diversamente.

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La conoscenza della legge straniera nel diritto internazionale privato

A

Un’importante novità introdotta dalla legge di riforma del 1995 riguarda la conoscenza della legge straniera che, in base all’applicazione delle norme di conflitto, dovesse risultare applicabile. La disciplina delle preleggi non prevedeva regole specifiche sulle modalità di accertamento della legge straniera; la giurisprudenza pertanto tendeva, in prevalenza, a ritenere che fosse onere della parte, che pretendeva di far valere un qualche diritto fondato su norme dell’ordinamento straniero richiamato, provare al giudice l’esistenza delle norme invocate a proprio favore (con la conseguenza di veder respinta la propria domanda nel caso in cui non fosse riuscita a fornire la prova richiesta); un tale onere della prova poteva essere tutt’altro che agevole da assolvere, quando si fosse trattato di ordinamenti il cui contenuto fosse difficilmente conoscibile (per es. a causa della situazione politica del Paese al quale l’ordinamento apparteneva, o della peculiarità delle fonti di quell’ordinamento). La nuova disciplina (art. 14) stabilisce invece che spetti al giudice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui comunque non risulti possibile accertare le disposizioni della legge straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana.

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Q

La condizione dello straniero nel diritto privato

A

Quanto al trattamento giuridico degli stranieri si pone una fondamentale distinzione tra i cittadini comunitari e quelli extracomunitari. Il trattato di Maastricht ha introdotto la Cittadinanza dell’Unione: essa è attribuita a chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro e costituisce un complemento della cittadinanza nazionale, alla quale si aggiunge senza sostituirla. Ai cittadini comunitari non solo va riconosciuto, senza possibilità di discriminazioni, pieno diritto di circolazione e soggiorno in tutti gli Stati membri e il godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale, ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici, quali il voto nelle elezioni comunali nello Stato membro nel quale risiedono. Sono destinatari di un trattamento di favore i cittadini di Paesi terzi che siano familiari di un cittadino dell’Unione.
Per gli extracomunitari la disciplina è stata affannosamente più volte modificata negli ultimi anni, sotto la spinta di un massiccio fenomeno migratorio. La relativa normativa è stata inserita nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. La materia è in così frenetica, e non sempre coerente, evoluzione che non è possibile in questa sede cercare di inseguirne i percorsi.
Si deve invece ricordare che ai cittadini extracomunitari è comunque applicabile sia il diritto d’asilo, previsto in generale dall’art. 10, comma 3, Cost. per qualsiasi straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, sia l’inammissibilità dell’estradizione per reati politici (art. 10, comma 4, Cost.). Inoltre allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. All’extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia è altresì assicurato il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, a meno che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo univo dispongano diversamente.
Attiene ai rapporti di diritto privato la c.d. condizione di reciprocità (art. 16 preleggi), ossia la previsione per cui un determinato diritto può essere riconosciuto in capo allo straniero a condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel Paese di cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti riconosciuto, non essendo ivi stabilite delle discriminazioni. Il principio di reciprocità, frutto di un modo di intendere i rapporti tra gli Stati ormai palesemente superato, è però sopravvissuto sia alla Costituzione (un orientamento di dottrina aveva sostenuto l’abrogazione implicita della norma, in quanto incompatibile con i valori costituzionali), sia alla riforma del diritto internazionale privato (la L. 218 non contiene infatti alcuna abrogazione espressa, né detta una nuova disciplina incompatibile con l’art. 16 delle preleggi); ne è risultato, però, fortemente ridimensionato, proprio in ragione del fatto che la Costituzione, le convenzioni internazionali, e le norme comunitarie riconoscono in modo assoluto la tutela dei diritti della persona.
Anzitutto esso, ovviamente, non si applica ai cittadini comunitari; inoltre il T.U. n. 286/1998 ha ulteriormente eroso l’ambito di applicazione del criterio di reciprocità, poiché ha riconosciuto il godimento di diritti civili a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, ma al tempo stesso fa salva l’ipotesi in cui il T.U. stesso o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità.
La regola, dunque, è ridotta ad un ambito di applicazione residuale, ma non può dirsi né abrogata in toto, né in assoluto incompatibile con i principi dell’ordinamento giuridico italiano. A tutti i lavoratori stranieri, infine, è garantita parità di trattamento e piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani.