giacomo leopardi Flashcards

1
Q

vita e opere:

A

Nel 1798 nasce Giacomo Leopardi a Recanati, che il poeta definisce “il natio borgo selvaggio”, nelle Marche, una regione marginale e arretrata dello Stato Pontificio.

Nasce in una famiglia aristocratica, figlio di un conte, Monaldo, e di una marchesa.
Riceve fin da bambino un’educazione approfondita in diversi campi del sapere dalle lettere classiche alla scienza, avvalendosi anche della grande biblioteca paterna.

Inizia a comporre versi fin dall’infanzia; famosa l’allegoria di sè come un ‘uccello prigioniero’. Si occupa di filologia, studiando, traducendo e commentando opere classiche.
Scopre la filosofia illuminista e ne rimane affascinato.

Nel 1815 avviene la cosiddetta “1° conversione letteraria (“dall’erudito al bello”) di Leopardi, dalla filologia si dedica alla composizione di testi propri, molto più evoluti di quelli giovanili.

Nel 1818 Leopardi cerca di inserirsi nella polemica classico-romantica, di questo periodo il testo che rimane inedito, ‘Discorso di un italiano intorno poesia romantica’, in cui afferma la superiorità dell’immaginario classico su quello romantico. Incomincia a raccogliere i suoi pensieri, sue annotazioni di carattere letterario-filologico, filosofico.

Questa raccolta diventerà nota come Zibaldone di pensieri, carte che rimarranno inedite a lungo, fino al 1898. Qui si trovano le considerazioni più profonde del poeta sulla poesia, sulla letteratura e sulla filosofia.

1819 = 2° conversione “dal bello al vero”, cioè dalla poesia di immaginazione alla poesia di sentimento. Leopardi si convince, a questo punto, che la poesia non può sottrarsi alla vita, non può limitarsi a evocare le belle favole o a suscitare amabili illusioni.
Negli anni venti dell’Ottocento pubblica le sue prime raccolte, i piccoli Idilli (L’infinito, La sera del dì di festa…) (1819-1821) e le Canzoni (1820-1823).

In questo stesso periodo Leopardi lascia Recanati, recandosi in viaggio a Roma. Nel 1824 la prima produzione poetica di Leopardi entra in crisi, e il giovane poeta si dedica a un’opera in prosa, le Operette Morali.
Nel 1825 riuscì a lasciare Recanati grazie all’avvio di una collaborazione con l’editore Stella che gli garantì una certa indipendenza economica: fu a Milano, Bologna (dove conobbe il conte Carlo Pepoli e pubblicò un’edizione di Versi), Firenze (dove incontrò il Manzoni e scrisse altre due operette morali) e Pisa (dove compose Il Risorgimento e A Silvia).

Nel 1828 è costretto a tornare a Recanati, a causa di un grave disturbo agli occhi, e rimarrà nel paese natale fino al 1830. In questi due anni Leopardi compose i cosiddetti Grandi idilli, alcune delle sue poesie più conosciute: A Silvia, Il passero solitario, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Dal 1830 al 1833 si trova a Firenze, dove conosce Antonio Ranieri, giovane napoletano a cui rimarrà legato fino alla sua morte. Si innamora di una giovane nobile, Fanny Targioni Tozzetti. Passione che si conclude in una delusione, ma che gli ispira le poesie del cosiddetto Ciclo di Aspasia.

Nel 1833 Giacomo Leopardi è a Napoli con Ranieri, in questa città compone i suoi ultimi Canti, La ginestra o il fiore del deserto e Il tramonto della luna.
Nel 1837 le sue già precarie condizioni di salute si aggravano ulteriormente e il 14 giugno 1837 muore a trentanove anni.

Questi ultimi canti fuoriescono anche dall’ultima raccolta d’autore che viene curata dallo stesso Leopardi, la raccolta de i Canti, che esce a Napoli nel 1835, solo per essere però immediatamente sequestrata l’intera tiratura dalla polizia borbonica, cosicché la Ginestra potrà essere letta solo postuma, curata nell’edizione dei canti curata da Ranieri nel 1845.

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2
Q

filosofia di Leopardi:

A

In seguito al deludente soggiorno a Roma, Leopardi, in piena crisi esistenziale, abbandona per sei anni (1822-1828) la poesia&raquo_space; fase del silenzio poetico.

Già dalle ultime canzoni, come L’ultimo canto di Saffo, è evidente un’evoluzione nella concezione pessimistica del poeta; in questi anni si assiste quindi al passaggio dal pessimismo storico, in cui Leopardi rimpiange il tempo passato come un periodo ricco di immaginazione e fantasia, al pessimismo cosmico.

La Natura non è più madre benigna, che si prende cura dell’uomo e gli nasconde con piacevoli illusioni la crudele realtà della vita, ma diviene matrigna crudele, che ha generato l’uomo per poi abbandonarlo alle sue sofferenze.

Leopardi assume una visione meccanicistica dell’universo - idea mutuata dall’Illuminismo - > prova dell’impotenza dell’uomo di fronte alle leggi della Natura e della sorte (idea in parte presente nel Bruto Minore e L’ultimo canto di Saffo). La Natura non è caritatevole, si muove in un ciclo incessante di distruzione e creazione, con il solo intento di autoconservarsi; l’uomo non è centrale, ma una vittima di questo ciclo eterno.
Per cui l’esistenza non è altro che un perenne ciclo di produzione e distruzione della materia dominato dalla cieca forza del caso.

Risulta quindi vana la ricerca di ideali trascendenti e di fughe evasive dalla realtà, perché non esiste nulla oltre alla vita terrena. Tuttavia Leopardi si rende conto che l’aspirazione alla felicità risulta essere il più grande ed insopprimibile desiderio dell’uomo. Quindi egli analizza l’evoluzione dell’uomo e la sua capacità di giungere alla felicità e si accorge che la stagione più felice della vita umana è quella dell’infanzia in cui il fanciullo, privo di razionalità, è convinto che la natura lo abbia messo al mondo per dominare tutto quello che lo circonda.

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3
Q

il ‘pessimismo’ di Leopardi:

A
  • 1° fase: pessimismo individuale = riguarda il Leopardi più giovane, appena adolescente e pertanto da poco fuori dalla fanciullezza, l’unica parte della vita nella quale, per sua stessa ammissione, si sentì sereno, allegro, amato.
    La precoce consapevolezza della realtà fu uno spartiacque senza ritorno per il recanatese, che da quel momento in poi non avrebbe fatto altro che acuire il proprio incrollabile e veemente pessimismo.
    Ancora giovanissimo, il poeta si convinse di essere l’unico destinato alla sofferenza e all’angoscia continue, il solo uomo a cui fosse preclusa la possibilità di essere felice.
    Come unica consolazione, la contemplazione della natura (un tratto tipico del Romanticismo) e delle sue straordinarie meraviglie.
    Probabilmente i problemi di salute che si affacciarono presto e poi lo afflissero sempre (una grave forma di rachitismo, scoliosi, problemi respiratori ecc.), contribuirono a tale convinzione, ma la maggior parte dei critici concorda sul fatto che essi furono del tutto marginali e che il pessimismo in Leopardi fosse già, fin dall’inizio, un tratto imprescindibile e forse quello preponderante, della sua indole.
  • 2° fase: pessimismo storico = In quella che i critici individuano come seconda fase del pessimismo leopardiano, detto storico, il poeta considera l’uomo come causa della propria infelicità.
    L’uso eccessivo della ragione e il progresso della scienza, hanno fatto sì che esso si allontanasse dallo stato primitivo, fantasioso e ingenuo in cui si trovava agli albori della civiltà, acquisendo una consapevolezza che ormai gli impedisce di sognare e illudersi.
    L’uomo moderno quindi, può essere felice solo nell’infanzia, quando l’inconsapevolezza e la naturalezza proprie della tenera età, gli consentono di avere aspettative positive per il domani.
    Da qui il continuo e nostalgico ritorno di Leopardi alla sua fanciullezza, allietata dallo stretto legame instaurato con i fratelli Carlo e Paolina, suoi inseparabili compagni di giochi e di quotidianità.
  • 3° fase: pessimismo cosmico = La terza fase del pessimismo leopardiano, quello cosmico, è bene espressa e sintetizzata nei versi finali del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

Forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

Nel Canto, composto a Recanati fra il 1829 e il 1830, in un tardo e solitario colloquio con la luna, dopo essersi posto e aver posto alla muta interlocutrice le domande che più gli stanno a cuore sul senso della nostra esistenza, un arrendevole e disingannato Leopardi conclude che nessun essere vivente può essere felice in quanto la Natura, che ora vede come matrigna e causa di ogni male, fa soffrire tutti, uomini e animali.
Siamo all’approdo definitivo del pensiero leopardiano.
La Natura dà all’uomo il desiderio di felicità solo per il gusto sadico di negarglielo costantemente.

La ragione, che adesso viene rivalutata, è la sola risorsa che abbiamo per capire e svelare l’inganno.
La forza cieca della Natura, che altro non è se non un eterno ciclo di creazione e distruzione, travolge ogni essere vivente, del cui dolore si disinteressa totalmente.
Comprenderlo, vivere con lucidità e razionalità, oltre che con il coraggio che la ragione può dare, fa sì che non si cada nell’infido tranello di abbandonarsi ad illusioni e desideri che sarebbero immancabilmente delusi.

  • 4° fase: ‘pessimismo eroico’ = Alla classica suddivisione del pessimismo leopardiano in tre fasi, alcuni critici ne aggiungono una quarta, detta eroica (o titanica).
    Essa corrisponde, in pratica, al pensiero e alla poetica espressi ne La ginestra, composta nel 1836 durante il soggiorno a Villa Ferrigni a Torre del Greco e considerata il testamento spirituale di Leopardi.
    La semplice osservazione dei cespugli di ginestra fioriti lungo le pendici del Vesuvio, offrì al poeta lo spunto per una riflessione profonda sul rapporto fra la Natura e la condizione umana.

Nel Canto, la ginestra, che cresce dove tutto intorno è arido e spento, assurge a simbolo della resistenza e della lotta che ogni uomo deve combattere per continuare a vivere e a credere nei propri sogni.
E se è vero che il singolo non può farcela da solo, la solidarietà fra esseri umani può dare ad ognuno la forza necessaria per superare i colpi terribili che il destino ci riserva.
Tutti insieme, uniti come se fossimo anelli della stessa catena, consapevoli della sorte comune, gli uomini diventano abbastanza forti da poter contrastare la malignità della Natura.

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4
Q

la poesia d’immaginazione e la poesia sentimentale:

A

Nello Zibaldone Leopardi riflette sulle caratteristiche della poesia antica e la mette a confronto con quella del suo tempo. La poesia degli uomini antichi era fatta di immaginazione, di fantasia, e dava origine a miti e favole, a immagini false, quindi, ma bellissime.

La poesia moderna (sentimentale) invece nasce dall’esperienza, dalle idee, dal sapere, cioè dal vero e dal modo di sentire che suscita la consapevolezza del mondo e delle cose.

Oggi l’immaginazione degli antichi è rimasta solo nei fanciulli e la poesia contemporanea, fatta di ragione, è molto lontana da quella del passato, e non può essere altrimenti; però, se vuol continuare a essere più sublime e più bella di una prosa filosofica, e soprattutto a procurare vera gioia e diletto, dovrà far largamente ricorso (molto concedere) al sentimento, alla passione, alla malinconia, cioè alle splendide illusioni che vengono dagli antichi e dalla classicità.

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5
Q

Operette morali: introduzione:

A

Questa nuova concezione filosofica viene sviluppata in un’opera in prosa, scritta per lo più nel 1824 e con aggiunte successive: si tratta delle Operette morali.

Le Operette sono 24 testi (per lo più di stampo satirico e di stile ironico), sviluppati in forma dialogica, e di argomento filosofico.

In questa opera Leopardi sistema in forma unitaria i pensieri e le riflessioni sparsi dello Zibaldone, donando veste letteraria ai contenuti filosofici con ironia e distacco.

Viene abbandonata la prospettiva soggettiva, autobiografica e della protesta civile, propria delle Canzoni e degli Idilli, per poter mostrare la realtà dell’esistenza e della condizione umana, svelando così le illusioni con cui l’uomo riesce a rendere più accettabile la sua vita.

La sua esperienza personale assume un valore esemplare.

La forma del dialogo ironico è mutuata dalla letteratura classica (si considerino i dialoghi platonici), ma in particolare da Luciano di Samosata, tardo scrittore greco del II secolo d.C., autore di dialoghi satirici e polemici di contenuto filosofico, morale e religioso.

Le Operette morali sono caratterizzate da una grande varietà di temi; in particolare Leopardi si concentra nella dura critica delle ottimistiche concezioni filosofiche ottocentesche: l’idea di un progresso continuo, l’illusione della felicità e l’immortalità dell’anima.

Critica soprattutto le teorie antropocentriche, che vedono l’universo come creato con il solo fine della soddisfazione umana.

Qui sono evidenti il pessimismo cosmico e la presa di coscienza della esistenziale infelicità umana.
L’uomo non è al centro del cosmo, ma solo una particella; la Natura opera in maniera autonoma, indifferente all’uomo.

Collegato a questa concezione è anche il tema della morte, sviluppato in diversi dialoghi: la morte è l’unica liberazione possibile per l’uomo e, in quanto cessazione del dolore della vita, assume una connotazione positiva.

La vita, in gran parte delle Operette, pare assurda e priva di senso, caratterizzata dalla noia da cui si cerca invano di fuggire (anche se Leopardi, lontano in questo dalle correnti nichiliste, non abbandona mai la ricerca di un possibile senso al dolore umano).

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6
Q

il Ciclo di Aspasia:

A

Il Ciclo di Aspasia è una serie di componimenti poetici di Giacomo Leopardi composta fra 1831 e il 1834, con temi principali sull’amore e la morte, nonché sulla caduta e la vanità di ogni illusione.

L’ispirazione per le liriche proviene dalla traumatica vicenda d’amore vissuta dal poeta con Fanny Targioni Tozzetti, a cui il poeta fa riferimento usando lo pseudonimo di Aspasia.
Nell’Antica Grecia, Aspasia di Mileto divenne nota come la concubina di Pericle, la cui vicenda sentimentale troverebbe, nelle intenzioni del poeta recanatese, un corrispettivo nel suo amore per la nobildonna.

Le poesie che compongono il ciclo sono: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia (IACAA).

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7
Q

Operette morali: edizioni:

A
  • 1824: Nel 1888 al passaggio delle carte da Antonio Ranieri alla Biblioteca Nazionale di Napoli emerse un autografo con un indice per le venti operette fino ad allora composte, diverso dalla prima e da ogni edizione a stampa nota.
    A differenza dei Canti, le Operette morali non hanno subito grandi cambiamenti.
  • 1827: Conosciuta come la prima edizione ufficiale delle Operette morali, è stata pubblicata a Milano da Antonio Stella, intelligente editore che seppe mediare con i rigidi censori dell’epoca.
    Tra il 1825 e il 1827 Leopardi scrive tre nuove prose ma qui non ve n’è traccia.
    Nello spostamento del Timandro a chiusura del libro, la critica ha letto una sorta di apologia dell’opera contro i filosofi moderni: evidentemente la composizione del Frammento apocrifo, che con il Cantico andrà a formare il pilastro del concetto leopardiano del tutto è male, ha condizionato il cambiamento del finale. Lo spostamento del Dialogo della Natura e di un Islandese, inserito tra il Tasso e il Parini, è dettato da variatio letteraria: l’autore evita la successione di due operette che hanno per protagonisti due storici poeti e letterati.
  • 1834: La seconda edizione delle Operette fu pubblicata sei anni dopo, nel 1834 (inviata tra giugno e luglio 1833) perché la prima era letteralmente introvabile.
    In quel periodo Leopardi soffriva di un fastidioso male agli occhi e a causa del problema alla vista, fu Antonio Ranieri ad occuparsi materialmente della stampa, presso l’editore Guielmo Piatti di Firenze, che nel 1831 aveva già pubblicato i Canti.
    Sono pubblicate per la prima volta due nuove operette: nel 1832, il poeta aveva composto: ‘Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere’ e ‘Dialogo di Tristano e di un amico’, quest’ultimo, posto a conclusione, è un testo polemico legato alla rottura col gruppo fiorentino dell’Antologia.
    La nuova edizione è una risposta alle opinioni ostili mosse nei suoi confronti e un’occasione per riprendere in modo più radicale le riflessioni in essa contenute. Delle operette del ‘25-‘27 ancora nessun segno, tuttavia il contenuto del Frammento si fa sentire in una nota posta al Cantico in cui l’autore dichiara: Questa è conclusione poetica non filosofica; il passo successivo sarà quello di approfondire questa conclusione in un testo più ampio e articolato.
  • 1835: La terza edizione delle Operette presso l’editore Saverio Starita di Napoli, corretta e accresciuta, fa parte di un progetto per la stampa completa delle opere poetiche e in prosa di Giacomo Leopardi in tre volumi: il primo per i Canti e il secondo, diviso in due tomi, per le Operette. Sfortunatamente la pubblicazione fu interrotta dalla censura e solo le prime tredici videro la luce. Leopardi aveva finalmente risolto di pubblicare Il Copernico ovvero della gloria e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.
    Nonostante la soppressione molte copie del primo volume furono vendute con uno stratagemma: il frontespizio originale fu sostituito con il seguente: Prose di Giacomo Leopardi, Edizione corretta, accresciuta e sola approvata dall’autore, Napoli, Italia 1835.
  • 1845: Nel 1845 uscì la prima edizione postuma presso l’editore di Firenze, Le Monnier curata gelosamente da Antonio Ranieri che, sebbene piena di errori, fu costruita sull’autografo dell’autore e su i suoi appunti preparatori per l’edizione Starita e per quella parigina. Ranieri aggiunse alcune note al testo ma non sempre in modo puntuale.
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8
Q

Operette morali: Dialogo della Moda e della Morte:

A

Composto a Recanati tra il 15 e il 18 febbraio 1824 il dialogo presenta due entità astratte (la Moda e la Morte) secondo un modello di stampo illuminista.

La Moda si presenta alla Morte come sua sorella, perché entrambe figlie della Caducità(la qualità delle cose destinate a cadere o perire, provvisorietà, labilità.).
La Morte assume inizialmente un atteggiamento di snobistica superiorità, rivolgendosi alla Moda con tono seccato. Tuttavia la Moda fornisce un elenco di usanze e comportamenti da lei indotti negli esseri umani, che favoriscono notevolmente il compito di madama Morte.
Riuscirà così a dimostrare la propria potenza che sarà alla fine riconosciuta dalla sorella.

Infatti, seguendo la Moda l’uomo si allontana dalla natura, si corrompe, mette in opera pratiche che lo fanno morire più in fretta, è addirittura già morto prima ancora di morire (La Moda spinge gli uomini a forarsi, non solamente le orecchie ma anche le labbra e il naso. Induce inoltre a marchiarsi con il fuoco, per imprimersi sulla pelle i tatuaggi, a sformare le teste dei bambini, a storpiarsi con scomode calzature, a sottoporsi alla costrizione dei busti. ).

Riconosciuta la parentela, Moda e Morte s’accordano per meglio operare e consultarsi sulle migliori soluzioni da adottare per trarre entrambe miglior partito da ogni situazione.

La Morte viene ridicolizzata, con la grottesca immagine della morte-teschio, che ha “mala vista”, ma che essendo priva di naso e orecchie non riesce neppure a inforcare gli occhiali. Inoltre la morte è anche sorda, e chiede alla Moda, dopo essersi presentata alla Morte come sua sorella, di parlare più forte.

Su richiesta della Morte, il dialogo si svolge mentre le due protagoniste corrono. La corsa, il non fermarsi mai, rappresenta l’essenza della morte e, soprattutto, della moda.

L’operetta è caratterizzata in larga parte da un ritmo frenetico, che corrisponde stilisticamente alla moderna ossessione della velocità.
Ma la corsa della modernità, lungi dall’essere vero progresso, tende verso la morte, della quale la moda è una fedele alleata.

Il potere della moda è tale che essa finisce per diventare l’incarnazione più emblematica della modernità, della sua decadenza rispetto al mondo antico, della sua insensata corsa verso la morte.

Loro scopo comune è quello di demolire e distruggere le cose del mondo, pur seguendo strade diverse (“l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose da quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io per un’altra“).

Leopardi critica una cultura che oggi definiremmo “di consumo”, destinata ad avere breve vita, come effimero è ogni aspetto della modernità.
Al punto che la morte, ai tempi dell’impero della moda, non lascia assolutamente nulla dietro di sé, e di «chiunque si muoia […] non ne resta un briciolo che non sia morto».

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9
Q

Operette morali: Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:

A

Torquato Tasso fu un personaggio estremamente caro ai romantici, che videro in lui un modello poetico ed esistenziale. E particolarmente amato fu anche da Leopardi, che, oltre ad andare a visitare la sua tomba durante il viaggio a Roma del 1822-1823, lo cita in numerosi passi dello Zibaldone e gli dedica due intere strofe della canzone Ad Angelo Mai, vero affresco della filosofia della storia dell’autore. Oltre a ciò Leopardi lo rende intestatario anche di un’operetta morale, inaugurando con lui una galleria di personaggi celebri e realmente esistiti (come Parini, Ruysch, Stratone, Copernico, Colombo, Gutierrez, Plotino e Porfirio) a cui affida la sua voce e i principi ideologici che animano il libro di prose.

La cornice del dialogo è il carcere di Ferrara, in cui il poeta è rinchiuso per presunta infermità mentale.

Imprigionato dietro le sbarre, a Tasso non rimane altro intrattenimento che il ricordo, l’immaginazione e il sogno. Nella solitudine della prigione gli appare il Genio familiare, uno spirito che abitualmente visita la cella del poeta e con cui Tasso si intrattiene dialogando. Questa situazione di soliloquio interrotto da una presenza immaginaria Leopardi la riprende da Socrate, descritto in colloquio con uno spirito durante la sua reclusione. Il primo tema dell’operetta sono le donne, che stimolano la fantasia e l’immaginazione degli uomini. Tasso confida al Genio la nostalgia per la sua amata Leonora e rimpiange il tempo in cui era giovane, pieno di forza e di illusioni. Il Genio gli propone allora di fargliela comparire in sogno, facendo riflettere il poeta sul fatto che la lontananza e l’immaginazione sono condizioni essenziali per ammantare di bellezza l’oggetto desiderato - questo concetto, tipicamente romantico, è sviluppato anche nella poesia Alla sua donna. I due riflettono così sul fatto se la donna sognata sia migliore di quella reale.

Inizialmente Tasso protesta, ma il Genio dice che l’unica differenza che intercorre fra sogno e realtà è che il sogno può qualche volta essere molto più bello e più dolce della realtà.

Il Genio fa l’esempio degli antichi, che davano grande importanza ai sogni, tanto da avere dei riti per aumentarne il piacere.

Più avanti, alla fine Tasso afferma con amarezza ‘se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare’.

Si introduce in questo modo la questione del desiderio che, secondo la famosa teoria del piacere sviluppata nello Zibaldone, e che in questa operetta trova una sapiente sintesi, è per sua natura irraggiungibile.

In base a quanto sostiene Leopardi, infatti, il piacere è sempre un evento passato o una speranza futura. Esso è, insomma, una sensazione di cui nessuno può fare effettiva esperienza.

Così Tasso chiede al Genio, dato che la felicità è inarrivabile, perchè si viva. NEanche il Genio lo sa. Così Leopardi inserisce anche il tema della noia e del dolore, riprendendo altri spunti teorici che riemergono in diversi momenti della sua opera, in particolare nei Canti.

La noia e il dolore sono le sole esperienze consentite all’uomo durante la vita.

La noia è un desiderio puro, che non si rivolge a nessun oggetto: è la percezione della vita non alterata da alcun sentimento. Leopardi nell’operetta la paragona all’aria, per la capacità di infiltrarsi ovunque, essendo “tenuissima, radissima e trasparente”.
Il suo peso è per l’uomo insopportabile, tanto che secondo l’autore qualsiasi condizione è da preferirle, persino uno stato di travaglio. Il dolore è invece la condizione necessaria per poi tornare, una volta che esso scompare o si interrompe, a provare felicità, che altro non è che il sollievo dallo stato di sofferenza (“piacer figlio d’affanno” si legge ne La quiete dopo la tempesta). I modi migliori per placare la noia sono gli espedienti per distrarsi, come l’“oppio”, il “vino” e lo stesso “dolore”.
Quest’ultimo, sostiene il Genio, “è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera”.

Lo spirito consola anche Tasso sul tema della solitudine: egli gli spiega come la solitudine non sia da disprezzare perché ha il merito di farci tornare l’amore per la vita e la voglia di rientrare “nella società degli uomini”.

Non solo, essa ha la capacità di “ringiovanire l’animo” e di far ritornare la nostra immaginazione fervida, dunque di riavvicinarci alla fantasia e alle illusioni della gioventù.

Dopo queste parole il Genio, vedendo che il poeta sta per addormentarsi, dolcemente si accomiata e quando Tasso gli chiede dove abita lo spirito, tra l’ironico e il sibillino, risponde: “in qualche liquore generoso”.

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10
Q

Operette morali: Dialogo della Natura e di un Islandese:

A

Questo dialogo viene scritto nel 1824 e compare nella prima edizione delle Operette morali nel 1827.

Mentre nelle operette precedenti la causa della sofferenza è posta nell’uomo stesso, si evidenzia qui, per la prima volta, il passaggio di Leopardi da una concezione positiva e benefica della Natura a quella contraria di Natura matrigna, crudele e indifferente.

Prendendo spunto da un’opera del filosofo illuminista francese, Voltaire Storia di Jenni o il saggio e l’ateo (1775), in cui il filosofo parla delle minacce naturali, quali gelo e vulcani, a cui sono sottoposti gli islandesi, Leopardi sviluppa l’idea di un Islandese che viaggia, fuggendo la Natura (dall’avversità del clima e dall’ambiente ostile).

Ma giunto in Africa, in un luogo misterioso ed esotico, incontra proprio colei che stava evitando, con la forma di una donna gigantesca dall’aspetto “tra bello e terribile”.

La Natura interroga l’Islandese sulle ragioni della sua fuga.

La spiegazione dell’uomo è un lungo monologo in cui egli ripercorre le sue concezioni sulla condizione umana: un’articolata riflessione che lo porta a comprendere l’ineliminabile infelicità dell’esistenza.

Inizialmente ritiene che la sofferenza nasca dai rapporti umani, spesso violenti. Ma il dolore può nascere anche dall’esterno, quindi inizia a credere che l’individuo soffra perché valica i limiti assegnati dalla Natura.

Infine comprende che la sofferenza è insita nell’uomo, caratterizzato da un piacere mai realizzabile del tutto, e non può essere eliminata.

La vera causa dell’infelicità è la Natura, che crea e poi tormenta gli esseri viventi. Questa ha assegnato all’uomo il desiderio insaziabile di piacere che non solo è irraggiungibile nel corso di una vita intera, ma a volte è anche dannoso e debilitante.

L’esistenza è quindi sempre in pericolo e si vive costantemente nella paura. Conclude il discorso poi citando le Naturales Quaestiones di Seneca: “tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere”.

Dopo il lungo monologo dell’Islandese interviene la Natura, che ribalta la posizione dell’uomo: questa è totalmente insensibile al destino degli esseri da lei creati (e quindi non provoca loro dolore di proposito), ma agisce meccanicisticamente secondo un processo di creazione e distruzione, che coinvolge direttamente tutte le creature.

Quella dell’Islandese è una visione antropocentrica - e per tal motivo errata e parziale della realtà. Con la conclusione di questo dialogo viene superata la concezione dell’uomo come elemento centrale dell’universo, ma rimane senza risposta la domanda dell’Islandese: “a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”.

Il dialogo come si è detto è in realtà un monologo dell’Islandese, e solo all’inizio e alla fine interviene la Natura con poche e dure battute.

Le parole dell’Islandese sono aspre ed accese, e ripercorrono le sue diverse riflessioni sulla sofferenza. Il protagonista accusa la Natura di essere crudele e ingiusta. Ma questa appare del tutto insensibile alle critiche, le sue parole sono ancora più dure: essa non agisce per assecondare l’uomo, ma è del tutto indifferente e insensibile davanti agli esseri da lei creati. Ed è qui che si evidenzia la voluta contraddittorietà della Natura leopardiana.

E nello stesso modo amaro e tragico si conclude l’operetta con la notizia, riportata dal narratore, della probabile morte dell’Islandese (se lo mangiano due leoni, oppure viene travolto da un vento che lo farà ricoprire di sabbia).
La Natura non fa quindi in tempo a fornire una risposta esauriente per la prematura morte dell’interlocutore (la conclusione del dialogo, ironica e beffarda, sottolinea il fatto che secondo l’autore certe questioni non possono trovare una soluzione filosofica).

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11
Q

Operette morali: Cantico del gallo silvestre:

A

Il Cantico del gallo silvestre è collocato in penultima posizione nelle edizioni delle Operette morali. Il carattere dell’operetta, infatti,, trasmette al lettore un senso di inesorabilità nell’indicare il nulla verso il quale si dirige l’esistenza umana.

L’idea di fondo è quella del “manoscritto ritrovato”, ossia un testo perduto e di assai difficile comprensione che riporta il vero e proprio cantico del gallo silvestre.
Nella finzione dell’operetta, questo testo viene tradotto dalle antiche lingue orientali, ma — come spiegano le righe iniziali — la figura di questo gallo e le sue caratteristiche restano immancabilmente avvolte nel mistero. Chiaro invece è il messaggio che comunica ai «mortali»: la vita è un progredire costante e implacabile verso la morte.

L’operetta risulta nettamente suddivisa in due parti.
1. La sezione iniziale (costituita dal primo capoverso) è un vero e proprio preambolo nel quale lo scrittore afferma di aver ritrovato un manoscritto antico che riporta il cantico del gallo silvestre, puntualmente tradotto nella seconda parte del testo. Rispetto al cantico del gallo, che trasmette un messaggio terribile e spaventoso, il prologo funge da contrappunto ironico, con la funzione di attenuare la forza e l’inesorabilità dei rimandi simbolici e biblici che il cantico stesso vuol comunicare al lettore. Insomma, in questa parte iniziale, il cantico del gallo è presentato come una sorta di scherzo, una bizzarria, una narrazione complessa e forse inattendibile, sulla cui autenticità si sollevano addirittura dubbi. Infatti lo stesso Leopardi afferma che il testo risulta composto da un impasto di lingue diverse (caldeo, targumico, ecc.) e difficili da comprendere; che non è possibile fare congetture sulla frequenza del canto del gallo silvestre, né se vi siano degli ascoltatori, né infine quale sia l’origine del suo messaggio. L’animale stesso è del resto definito un pappagallo ammaestrato. Il cantico originario era inoltre un testo poetico, mentre in questo volgarizzamento leopardiano esso viene presentato in prosa: nel Cantico del gallo silvestre non esiste nemmeno più uno spazio per la poesia.

Tutti questi elementi, come si è detto, hanno un marcato valore ironico e dissacratorio che urtano con il messaggio severo e algido del cantico. Eppure, proprio questa ironia acuisce il senso di implacabilità e terrore insiti nel cantico del gallo. Con questo artificio, Leopardi mette in bocca all’animale leggendario il proprio pensiero.

  1. Le prime parole del cantico segnano il brusco cambiamento di stile che si verifica al passaggio tra la prima parte del testo (il preambolo) e la seconda (il cantico del gallo). Il gallo si esprime con un tono aulico, a testimonianza di una prosa di alta qualità poetica.
    Le forti cesure, indicate dalla presenza massiccia della punteggiatura, mimano il verso poetico anche con l’adozione di veri e propri versi (‘Sorgete; ripigliatevi la soma’ è un endecasillabo, tra l’altro ricco di allitterazioni).

Il Gallo indica nel mattino come l’ora più felice (o piuttosto meno infelice) della giornata, perché prima che l’uomo si desti rimane intatta (intera e salva) fino al risveglio (vigilia) del giorno seguente l’illusione di felicità e la possibilità di progettare la propria esistenza; ma in questo momento (cioè, quando ci si desta: in questa è riferito a vigilia) scompare o si affievolisce.
(Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.)

Se non apparisse alcuna opera (attività, azione) sotto l’astro diurno (il sole), languendo (dal momento che languiscono, si esauriscono) tutti i viventi per la terra in profondissima quiete il mondo sarebbe inutile. Quindi senza la vita degli uomini e degli animali, l’universo intero rivela la propria inutilità.

Il gallo chiede conto di questo al Sole e chiede allo stesso Sole se lui è felice o infelice.

La vita è vista come un male dal quale è bene “liberarsi”, fatto che avverrà inesorabilmente, perché verrà il momento in cui nessun movimento interno all’uomo, ossia né materiale, né sentimentale desterà la coscienza degli esseri viventi, lasciandoli in un sonno perpetuo.
Il sonno stesso preannuncia la condizione di morte, perché poiché la vita (che nel discorso del gallo è male) non sarebbe sopportabile se non fosse interrotta molto spesso da stati di incoscienza, ossia dal sonno.

L’unico scopo della vita è il morire: dal momento che ciò che non esisteva non poteva morire, ciò che esiste è nato dal nulla. In questo passaggio risiede l’approdo leopardiano al nichilismo.

L’essere è visto negativamente e non ha altro fine se non il nulla.
L’uomo, nonostante tutte le sue attività, esiste solamente per morire. Egli cerca invano la felicità, poiché il fine dell’essere non è nel soddisfacimento dei desideri dell’uomo, ma nella morte. L’errore è dunque nell’uomo, che si propone un fine diverso da quello che è il suo destino.

L’idea che Leopardi vuole comunicare è quella di una vita intesa come fatica (penando sempre), e dunque di una continua, estenuante battaglia placata di tanto in tanto dalla quiete del sonno. Infatti ’uomo si rende conto del trascorrere del tempo da vari segnali. Come già il precedente mortali riferito agli uomini, anche questo vivente ha un carattere impersonale, quasi ad assimilare l’umanità alle altre specie animali o vegetali.

Ogni cosa finirà nel nulla; questo concetto è espresso dalla metafora impostata sul paragone luce-vita. All’idea di “spegnersi” è legata anche l’immagine della luce del sole, cui il gallo si era rivolto nelle righe precedenti e di cui l’animale stesso è simbolo. Le conquiste dell’uomo sono destinate all’oblio e come è accaduto in passato per i grandi regni e gli antichi imperi degli uomini e le loro rivoluzioni che destano meraviglia, che furono degni di fama ed oggi non ne resta nemmeno il ricordo

Allo stesso modo lo stesso mistero (arcano), tale da destare stupore e smarrimento (mirabile e spaventoso), dell’esistenza universale, prima ancora di poter essere spiegato o compreso intimamente, svanirà e si perderà (perderassi) nel nulla. (conclusione)

L’intero discorso del gallo, dunque, contiene una lunga metafora del cammino della vita umana.

Il mattino è come la giovinezza dell’uomo, piena di speranze e attese che però non vengono soddisfatte nel corso della giornata (cioè, della vita), né tantomeno sul far della sera.

Questa sovrapposizione tra la natura e l’uomo è però solo apparente: se la natura infatti potrà godere di una nuova rinascita a ogni successivo giorno, all’uomo questo non è concesso: la ciclicità del tempo della natura contrasta con la linearità del tempo dell’uomo.

Questa idea era già stata espressa da Leopardi in vari testi poetici e in prosa, ma qui il poeta va oltre: egli ipotizza infatti che anche l’intero universo, nonostante la ripetitività di manifestazioni dalle quali è regolato, si diriga a poco a poco verso la propria estinzione, come i regni e gli imperi umani, e procede verso il Nulla, che dunque rappresenta il fine di tutte le cose (esso universo, e la natura medesima, sarà spenta).

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Operette morali: Dialogo di Federico Ruysh e delle sue mummie:

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All’interno delle Operette morali leopardiane, la più evidente novità del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, composto a Recanati tra il 16 e il 23 agosto 1824, è senz’altro la struttura. L’operetta è infatti l’unica di tutta la raccolta che vede convivere versi e prosa.

La ‘lirica del Coro dei morti’ presente in apertura è, inoltre, un componimento poetico estremamente significativo non solo per i suoi contenuti, che riflettono sull’inconoscibile mistero della vita e della morte, ma anche sotto l’aspetto formale, dato che la poesia, che alterna liberamente endecasillabi e settenari, segna il distacco di Leopardi dalla canzone tradizionale per passare alla canzone libera, che poi caratterizzerà la stagione dei canti pisano-recanatesi.

La scelta di esordire con una canzone crea immediatamente un’atmosfera solenne, che rende protagonisti i morti, i quali contemplano “con uno spirito di arresa all’incomprensibilità delle vita, uguale a quello che i vivi hanno nei confronti della morte”.

Nella canzone - costruita con uno stile ampio e complesso - si dichiara l’impossibilità di conoscere e comprendere l’arcano che governa la Natura.

Questa stessa impossibilità di comprendere viene poi ribadita nella parte in prosa dell’operetta, dove dialogano Federico Ruysch (1638-1731), anatomista olandese famoso per aver approntato nuove tecniche di mummificazione dei cadaveri, e un gruppo di morti conservati nel suo studio.

La vicenda è ambientata nello studio dello scienziato; Federico Ruysch viene svegliato nel cuore della notte dal canto dei defunti risorti poiché si sta compiendo “l’anno grande e matematico”, ossia quel momento in cui i pianeti si ritrovano nella stessa posizione in cui ebbe principio il loro moto. Allo scoccare della mezzanotte i morti di ogni dove hanno facoltà di parlare coi vivi per un quarto d’ora. Ma a una condizione: che siano i vivi a rivolgere loro domande, poiché i defunti, tra loro, non saprebbero che dirsi.

L’imbalsamatore vince a fatica la paura che lo inchioda a letto, si alza e ordina alle sue mummie di fare silenzio. Da qui l’atmosfera dell’operetta perde quella solennità creata dai versi per lasciare spazio a momenti di ironia e a passaggi burleschi, dovuti essenzialmente alla goffaggine del personaggio personale, che si ritrova inaspettatamente di fronte a una situazione paradossale. Impaurito che i cadaveri siano risuscitati, Ruysch rimane spiazzato finché il primo non lo rassicura con queste parole:

‘Poco fa, sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose.’

L’olandese allora improvvisa una serie di domande che corrispondono ad altrettanti luoghi comuni sul tema della morte, che i cadaveri si apprestano a smentire o correggere.

Ruysch chiede che cosa si prova in punto di morte e, con sua sorpresa, si sente rispondere che non si avverte proprio niente, esattamente come non ci si avvede del momento in cui ci si addormenta.

Col procedere del dialogo, l’anatomista cerca di incalzare i suoi interlocutori ma si ritrova sempre più disorientato dalle loro risposte. “Non sentiste nessun dolore in punto di morte?” domanda alle mummie. Alla nuova risposta negativa esse aggiungono che la morte non solo non è un’esperienza dolorosa, ma non è nemmeno un “sentimento”, quanto “piuttosto il contrario”.

Si devono quindi ricredere tanto gli epicurei quanto coloro che credono nella vita spirituale: la morte è semplicemente un affievolirsi progressivo di tutte le facoltà senzienti, fino al completo spegnimento. Si arriva così alla risposta decisiva che i morti danno a Ruysch quando egli chiede loro: “Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?”.

Così il morti risponde: ‘Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte.
Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell’ultimo di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell’uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza.’

Alla luce di questa risposta si comprende come la morte non solo venga scagionata dall’essere fonte di dolore, ma venga definita addirittura come un possibile piacere, proprio perché il piacere consiste nel non sentire.

Secondo Leopardi la percezione della vita è di per sé dolore perché essa è caratterizzata in ogni momento da una tensione verso un desiderio irraggiungibile.

L’indebolimento delle nostre facoltà, invece, ci libera da questa morsa per consegnarci a un non essere che è positivo proprio perché corrisponde a un non sentire.

Il piacere è, insomma - come viene detto nell’operetta - la “languidezza”: è l’indebolimento delle nostre forze fino al non essere più. Successivamente i morti rispondono che, per sua stessa natura, l’uomo, fino all’ultimo secondo, rimane aggrappato alla vita.

Spera cioè di continuare a vivere anche quando malato o ormai prossimo al trapasso.

La domanda a cui i morti non rispondono è l’ultima che Ruysch pone loro: “Dite: come conosceste d’essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m’intendete? Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a letto”.

La domanda tenta di “conoscere la morte”, che però è già stata “definita ‘ignota’ dal Coro”.

Un mistero drammatico si nasconde dietro questa chiusa apparentemente comica, che circolarmente riporta Ruysch nella stesso luogo dove era all’inizio, il letto, lasciandolo in balia di quella stessa incomprensione dell’arcano che egli, come tutti gli uomini, aveva prima di intraprendere il dialogo con le sue mummie.

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Operette morali: Dialogo di Tristano e un amico:

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Non è un caso che il ‘Dialogo di Tristano e di un Amico’ sia l’ultimo testo delle Operette morali. Esso, infatti, rappresenta una sorta di summa del pensiero di Leopardi, che lo espone attraverso la voce del personaggio di Tristano, il cui nome, oltre a rimandare al celebre protagonista del romanzo medievale ‘Tristano e Isotta’, si riconduce per paretimologia (ovvero, tramite un’etimologia fasulla) alla parola “triste” (dall’aggettivo latino tristis, triste), quale è appunto la filosofia del personaggio.

Ma la posizione di coda nell’indice delle Operette morali risulta significativa anche perché questa prosa si riallaccia per struttura e temi al ‘Dialogo di Timandro e di Eleandro’, ossia all’operetta che chiudeva l’edizione del 1827. Cinque anni più tardi, Leopardi ha incrementato il numero delle prose del suo libro e ha aggiunto questa nuova conclusione, senz’altro più completa e potente, capace di rispecchiare gli ultimi drammatici sviluppi del suo pensiero e in grado di preannunciare la forza poetica e filosofica dell’estrema stagione leopardiana, in particolare la Palinodia al Marchese Gino Capponi (1835), in cui ritroviamo la stessa tecnica della finta ritrattazione, e La ginestra o il fiore del deserto (pubblicata per la prima volta nel 1845).

Tristano ritiene che non solo il suo tempo sia caratterizzato da un’infelicità solida ed evidente, ma che ogni uomo sia ontologicamente infelice.

Non può perciò accettare nessuna fiducia nel progresso né, tanto meno, alcun tipo di esaltazione dell’epoca attuale.

Del resto, come è noto, proprio le Operette portano avanti una feroce battaglia contro le teorie antropocentriche in favore di un relativismo che ridimensiona l’intera condizione umana, in particolar modo quella presente, che si caratterizza solo per una superba considerazione di sé da parte delgi uomini. Così Tristano, in aperta polemica con l’Amico, all’ottimismo spiritualistico della cultura della prima metà dell’Ottocento oppone il suo lucido ed eroico pessimismo ontologico.

L’arma con cui egli fa ciò in questa operetta è senz’altro quella dell’ironia, attraverso la quale il protagonista finge di aver cambiato idea e di ritornare sui propri passi per abbracciare le tesi dell’Amico.

La materia di scontro è l’ultimo libro di Tristano (palese è il riferimento alle stesse Operette morali, conosciute dal pubblico nell’edizione del 1827). Già dalle prime battute si può notare come il piglio ironico non esiti a divenire sarcastico:

Amico: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano: Sì, al mio solito.

Attraverso questa finta ritrattazione Leopardi smonterà una dopo l’altra le convinzioni ottimistiche e antropocentriche dell’Amico, vero laudator della propria epoca.

Tristano gli farà ammettere che l’infelicità è una condizione evidente e innegabile dell’uomo e respingerà, con il riso prima e con lo sdegno poi, le accuse di essere approdato a simili convinzioni a causa della propria sfortunata condizione fisica.

Successivamente deriderà la fiducia nel progresso dei contemporanei, che egli giudica vili e più deboli degli antichi, i quali erano magnanimi e anche fisicamente più forti, sia nel corpo che nello spirito.
Il protagonista espone così un pensiero organico, che ha come fondamento l’infelicità ineluttabile dell’uomo: infelicità che non può essere definita, come tenta invece di fare l’Amico, né fenomeno accidentale né condizione trascurabile.

A supporto della propria teoria Tristano richiama in libera alternanza passi delle Sacre Scritture e dei poemi omerici.

Il suo pessimismo, che preferisce la morte alla vita, e che per nulla si scompone di fronte all’incomprensione che i contemporanei riservano al suo libro, si potrebbe definire “eroico”, già in linea con quello della Ginestra. Dopo la finta accettazione di emendare la propria opera per divulgarla tra il pubblico, l’ironia lascia spazio all’attacco diretto e a un tono di invettiva schietto e crudo, in cui si difende il pensiero consegnato al libro delle Operette.

Qui l’autore ha cercato coraggiosamente di indagare la drammatica essenza della realtà e non di rifuggirla vigliaccamente. Tristano difende con forza il suo intento di aver analizzato la condizione dell’uomo alla luce dell’effettiva fragilità che lo caratterizza perché, solo in seguito a una onesta valutazione e a uno sguardo consapevole sulla propria natura, si potrà accedere alla nobile consolazione del riso e della pietà.

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I Canti: introduzione:

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I Canti (1818-1836) raccolgono la parte principale (e più conosciuta) della produzione in versi di Giacomo Leopardi.

  • la prima fase tratta di temi eroici, delle canzoni del suicidio, temi della natura e sul senso della vita. La voce poetica sembra giungere dall’antico e dalla natura, laddove anche morire diventa necessario per durare poeticamente, l’umanità è eroica e decaduta, e l’io è ricordo.
  • la seconda fase comprende i piccoli idilli e i canti pisano-recanatesi o grandi idilli.
  • la terza fase, nominata ciclo di Aspasia, è dedicata a Fanny Targioni Tozzetti, conosciuta a Firenze, di cui egli s’innamorò. Il nome Aspasia si riferisce ad Aspasia di Mileto, etera ateniese amata da Pericle, il grande politico e condottiero ateniese.
    l’ultima fase comprende le due canzoni “sepolcrali”, la Palinodia, il capitolo I nuovi credenti, La ginestra e Il tramonto della Luna.

I modelli ai quali si collega il poeta sono Giuseppe Parini, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, ma si sa che studiò a lungo anche il Petrarca, di cui curò un’edizione del Canzoniere, e Torquato Tasso.

I Canti contengono le poesie e le canzoni composte da Leopardi fra il 1816 e il 1836. La raccolta non nasce in una volta ma si costituisce nel tempo, attraverso aggregazioni diverse.

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I Canti: edizioni:

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L’edizione del 1824 (Bologna, Nobili) ha come titolo ‘Canzoni’ e contiene 10 di questi componimenti; sempre a Bologna, nel 1826 (Stamperia delle Muse) esce ‘Versi’, una raccolta che comprende traduzioni e poesie, di cui 6 già pubblicate a Milano col titolo di Idilli.

Sarà Leopardi, nell’edizione fiorentina del 1831 (Piatti) da lui curata, a raggruppare insieme per la prima volta le canzoni e gli idilli sotto il titolo di ‘Canti’.

L’edizione del 1835 (Napoli, Starita) include nuove composizioni;

la raccolta definitiva, curata da Antonio Ranieri in base agli appunti e alle correzioni fatte da Leopardi, esce nel 1845 a Firenze, presso Le Monnier e comprende le canzoni e gli idilli.
A questa raccolta faranno riferimento le edizioni critiche moderne, curate da Francesco Moroncini.

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i Canti: l’ultimo canto di Saffo:

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L’Ultimo canto di Saffo, composto da Giacomo Leopardi nel 1822, è una canzone che esprime il dramma della caduta delle illusioni dinanzi all’inesorabile legge della natura.

L’Ultimo canto di Saffo si concentra infatti sul suicidio della poetessa Saffo (640 ca. - 570 ca. a.C.) mettendo in scena il dissidio interiore di una donna dall’animo nobile e dall’aspetto poco attraente che, esclusa dall’esperienza amorosa, rivendica il proprio diritto all’affetto contro un **ordine naturale insensibile **alla virtù.

L’Ultimo canto viene inserito nei Canti sin dalla prima edizione del 1831.

Leopardi segue la poetessa nel progressivo passaggio dal riconoscimento delle meraviglie della natura a quello dell’incapacità di fruirne liberamente, fino alla constatazione che di tali bellezze la natura è stata con lei avara. Si passa poi, in uno snodo fondamentale del ragionamento, al riconoscimento della crudeltà della legge naturale e del destino, che non si accanisce su lei sola, ma che accomuna tutti gli uomini, fino all’amara considerazione conclusiva che l’unica possibilità di ribellione rimasta è la morte.

Questo dualismo interiore tra l’ineluttabilità del destino umano e l’irriducibile vitalità della passione si riflette anche sul piano stilistico. Il lessico, evocativamente, è ora aspro, ora alla ricerca di una dilatazione spaziale e temporale, ora fortemente melodrammatico. La sintassi, caratterizzata da esclamazioni, interrogative ed inversioni dell’ordine naturale del discorso, segue l’andamento drammatico della scena.

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i Canti: alla sua donna:

A

La canzone sembra essere un doloroso addio alle illusioni nel momento che si rivela la loro inconsistenza nel contrasto tra l’immaginazione e la realtà; soprattutto è un addio alla illusione più importante e più carica di significati e di valore per la vita umana, l’amore, perché questo scatena speranze sempre risorgenti; e se le illusioni sembrano assurde al vaglio della ragione, tuttavia rappresentano l’unica realtà dello spirito umano quando questo si allontana dalla realtà contingente e quotidiana che riguarda l’individuo nella sua veste sociale rifugiandosi inevitabilmente in se stesso per meglio resistere alle delusioni. La donna a cui il poeta rivolge il suo inno non è una donna terrena. Il poeta può desiderarla solo in una astrattezza perchè non appartiene alla realtà di questo mondo > illusione.

18
Q

i Canti: canto notturno di un pastore errante dell’Asia:

A

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è forse il punto più alto nella storia delle forme poetiche leopardiane. La canzone libera appare come la struttura migliore per una poesia più filosofica e speculativa.

Il poeta trae ispirazione per il componimento dalla lettura di un resoconto di un viaggio presso i Kirghisi, una popolazione dell’Asia centrale, in cui si raccontava che alcuni pastori del luogo intonassero canti rivolgendosi alla luna.

In questa poesia Leopardi sembra ormai essersi aperto al Romanticismo: esotismo, lontananza, la situazione notturna sono alcuni dei tipici aspetti della poesia romantica. Ma la lingua e l’immaginario rimangono sempre gli stessi, come l’invocazione alla luna, come nell’idillio Alla luna.

Il Canto notturno è diviso in 6 stanze, molto diverse l’una dall’altra.

Nella prima stanza il pastore si rivolge alla luna silenziosa, confrontando la sua condizione con quella dell’astro. Il pastore si definisce “vecchierel bianco”, un chiaro riferimento a un sonetto di Petrarca (Movesi il vecchierel).

Il pastore si interroga poi sulla sua esistenza, confrontando la sua situazione con quella del suo gregge e rivolgendosi direttamente ad esso, domandandosi come mai gli animali non sentano il tedio della vita (ma negli ultimi 2 versi, Leopardi sembra arrivare alla conclusione che in realtà porbabilmente anche il gregge soffre a suo modo > pessimismo cosmico). Per lui l’esistenza è male.

La domanda primordiale di Leopardi è quindi chi è che gode dell’esistenza dei viventi, se essi la patiscono così tanto?

19
Q

i Canti: a se stesso:

A

Con il componimento A se stesso, Leopardi raggiunge il punto estremo della sua negatività, rappresentando il cosiddetto Ciclo di Aspasia.

La canzone libera si concentra in uno spazio brevissimo rispetto alle grandi canzoni precedenti. La negatività dell’esperienza biografica, la delusione amorosa, ispira questi sedici versi di estremo pessimismo, che mostrano la “vanità del tutto”.

La poesia richiama un abbozzo lirico dello stesso periodo, l’Inno ad Arimane, dio del male della mitologia zoroastrica. Il materialista Leopardi individua un principio negativo trascendente che è calato nei corpi e nelle passioni. Viene visto come un artefice malvagio che ha costruito il genere umano come sistema dei desideri.
In ‘A se stesso’ il poeta si rende conto dell’illusione che lo ha plagiato, l’amore per Aspasia, e ordina al suo cuore di posarsi per sempre, di acquetarsi, poichè al genere umano il fato donò solo la morte, e la natura governa lo scherzo che è l’esistenza.

20
Q

i Canti: Aspasia:

A

La maggior parte della critica considera la sola e unica poesia d’amore di Leopardi.

Aspasia (lo pseudonimo ispirato ad Aspasia, moglie di Pericle, dietro il quale si celano il nome e la persona di Fanny Targioni Tozzetti) era apparsa al poeta come una figura divina, ma soltanto perché vista con gli occhi ingenui e sognanti dell’amore, che inevitabilmente inducono la mente a creare un ideale di donna che, in realtà, non esiste.

La nobile fiorentina non può neanche immaginare quali passioni, emozioni, deliri e pensieri abbia scatenato nel cuore fragile e rapito del poeta in quanto, per sua stessa natura, non ha né la capacità né la sensibilità di comprendere l’elevatezza dei suoi sentimenti.
Adesso che l’incanto si è spezzato, nonostante la cocente delusione, Leopardi è finalmente libero di togliere quel velo divino del quale aveva voluto ammantare Aspasia e guardarla per come davvero è, in tutta la sua voluttuosa fisicità, che quasi riesce a sfiorare con le dita, ma ormai priva di quelle connotazioni ideali che l’avevano resa unica e meritevole dei suoi sospiri.
Quell’Aspasia non esiste più, è morta.

Ora, sebbene i giorni trascorrano nel tedio assoluto, Leopardi si sente di nuovo libero, non più schiavo di quel giogo amoroso da cui era uscito stremato, passando dall’iniziale ed ingannevole illusione di poter essere amato alla triste certezza di un destino che invece lo priva di qualsiasi conforto sentimentale.
Ora il poeta ha acquisito la consapevolezza che l’amore è mera illusione e che se da una parte una vita senza illusioni è come una notte oscura d’inverno, resta almeno quel sano distacco che consente di ridere, seppur amaramente, della vanità di tutte le cose.

Adesso sì, finalmente, può permettersi di starsene sdraiato su un prato ad osservare il mondo circostante senza affanno e senza inutili patemi d’animo.

La polemica con il sesso femminile è un altro aspetto del canto che deve essere sottolineato. Secondo l’autore, infatti, dal punto di vista sentimentale, esso sarebbe inferiore a quello maschile, poiché incapace di coglierne il grande fervore emotivo e lo slancio ideale.
Teniamo presente che qui Leopardi è, in fondo, un innamorato deluso, che quasi si giustifica di quanto provato per una donna che, a suo dire, non lo meritava.
Reazione umanissima, che accomuna il poeta a tutti noi.

21
Q

i Canti: la ginestra o fiore del deserto:

A

Nel 1836 Leopardi si trova a Napoli da tre anni e compone la sua poesia La ginestra o il fiore del deserto a Torre del Greco, da dove vede il Vesuvio che nel 79 d.C aveva distrutto Pompei ed Ercolano.

Nella 1° strofa della poesia compare la protagonista, la ginestra, con l’ambiente in cui vive, le pendici del Vesuvio: una terra arida e spoglia di qualsiasi altra pianta. Il poeta ricorda che un tempo su quella terra si trovavano città gloriose (per esempio Pompei) che il vulcano ha distrutto.
Questo gli offre lo spunto per polemizzare con chi esalta l’uomo e la sua condizione (A queste piagge/venga colui che d’esaltar con lode/il nostro stato ha in uso): in quell’ambiente desolato e devastato è la dimostrazione che l’esistenza umana non vale niente e la natura non si cura dell’uomo, non si fa problemi a spazzare via in un istante lui e le sue creazioni.

La 2° strofa continua il rimprovero: il secolo Ottocento vede dominare una cultura che ha abbandonato i principi del Rinascimento e dell’Illuminismo e ha fatto quindi dei passi indietro anziché avanti nello sviluppo del pensiero. Alla ragione ha preferito i dogmi e le illusioni. Nonostante ciò, gli uomini del presente credono di vivere nel progresso.
Leopardi vuole prenderne le distanze, sapendo di essere disprezzato da tutto il mondo intellettuale per le sue idee controcorrente.

Nella 3° strofa Leopardi continua a descrivere l’uomo del suo tempo. Lo accusa di viltà perché incapace di ammettere la propria debolezza e insignificanza di fronte alla natura: al contrario non fa che dirsi orgoglioso della grandezza umana, nutre se stesso e gli altri uomini di illusioni.
Nobile è invece l’uomo che è consapevole della propria condizione misera ma la vive a testa alta; inoltre, invece di dare la colpa ad altri uomini per le sue sofferenze riconosce che l’unica responsabile è la Natura stessa. Per questo l’unica via per vivere degnamente per gli uomini è allearsi con gli altri uomini contro la comune nemica Natura, anziché farsi la guerra tra loro (tutti fra sé confederati estima/gli uomini).

Nella 4° strofa il poeta descrive l’infinità dell’universo che gli si apre davanti quando di notte guarda l’immenso cielo stellato: rispetto alle stelle e alle galassie la Terra e l’uomo non sono niente, eppure gli uomini si credono tanto importanti da essere il centro e lo scopo del mondo. Leopardi deride i suoi contemporanei che credono che la Terra sia stata creata per loro, ma prova anche pietà.

La forza distruttrice della natura nei confronti degli uomini è al centro della 5° strofa: Leopardi la paragona a una mela che cadendo dall’albero distrugge un formicaio.

La dimostrazione dell’indifferente capacità distruttiva della natura continua nella 6° strofa: l’eruzione del Vesuvio del 70 d.C. è la prova del fatto che in un attimo la natura senza neanche accorgersene può spazzare via tutto quello che l’uomo ha costruito con fatica. Pompei rimane a testimoniare questo fatto.

Nell’ultima strofa Leopardi torna a rivolgersi alla ginestra: anche lei è destinata prima o poi a soccombere alla devastazione del vulcano, ma è più saggia degli uomini perché non ha mai creduto di essere immortale. Né ha mai supplicato il suo oppressore. La ginestra accetta il proprio destino.

questioni principali:
- esaltazione dell’uomo oggettivo e consapevole della sua esistenza
-contrapposizione fra la Natura Madre (che ha partorito l’uomo) e Natura Matrigna (per come si comporta con l’uomo)
-l’uomo deve amare gli altri uomini
-critica alla religione che pone l’uomo al centro
-il povero contadino dell’800 vede il Vesuvio che come con Pompei può in ogni momento distruggere tutto ciò che ha.
-alla fine Leopardi torna a parlare alla ginestra, lodandola perché accetta da subito il suo destino e perché è da subito consapevole di non essere superiore rispetto al resto del creato.