Tecniche di laboratorio Flashcards

1
Q

Quali sono i principali campi di analisi in medicina di laboratorio e loro applicazioni?

A

Nella medicina di laboratorio si distinguono due principali campi di analisi: uno riguarda l’enzimologia, l’altro le proteine.
Sono applicati non solamente in clinica, ma anche e soprattutto nella ricerca, la quale pone le basi per un miglioramento di tutta la medicina in generale.

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Q

Come vengono valutati in laboratorio gli enzimi e quali sono le principali differenze rispetto alla quantificazione delle altre proteine?

A

La quantificazione e valutazione degli enzimi rappresenta una grande fetta delle misurazioni svolte in un laboratorio.
L’enzima è una proteina attiva, che svolge un’azione nel tempo; il tempo, quindi, rappresenta una variabile fondamentale per misurare l’attività enzimatica. Per quantificare una proteina si utilizzano metodi che riguardano il calcolo della massa proteica, mentre per quantificare un enzima sono sfruttati diversi sistemi che valutano il suo lavoro in base al tempo, concentrazione di substrato, pH, temperatura, equilibrio di reazione, ecc.
Per monitorare l’attività enzimatica si utilizza la spettrofotometria, una delle tecniche biochimiche di base, che ha rivoluzionato il mondo della medicina.

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3
Q

Cos’è la spettrofotometria?

A

La spettrofotometria è una tecnica che consente di dosare un analita in una sospensione, lavorando all’interno dello spettro della luce visibile, o nel caso della spettrometria UV-vis anche dell’ultravioletto. Sfrutta la capacità di alcune molecole di assorbire la luce, proprietà garantita dalle caratteristiche strutturali di una determinata molecola, dai legami chimici, dalla sua particolare conformazione, e dai livelli energetici quindi associati alla natura di quella molecola.

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4
Q

A cosa si deve l’utilizzo della spettrofotometria?

A

L’utilizzo della spettrofotometria si deve ad una ricerca sperimentale statunitense del 1930 circa, che, dopo aver scoperto che la vitamina A era in grado di assorbire luce ultravioletta, si era prefissata lo scopo di quantificare, attraverso quello che è stato uno dei primi spettrofotometri, la vitamina A nei pasti distribuiti ai soldati. Essa è culminata nel lancio commerciale degli spettrofotometri UV-Vis all’inizio degli anni ’40, tra cui lo spettrofotometro Beckman DU si è distinto, fornendo risultati più accurati e riducendo enormemente il tempo di analisi.
Oggigiorno è uno strumento riscontrabile in qualunque laboratorio analisi; ad esempio, l’emoglobina viene quantificata da un modello simile di spettrofotometro, sebbene più moderno.

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5
Q

Qual’è la composizione di uno spettrofotometro e su che principi si basa l’analisi? Che tipo di informazioni si ottengono?

A

Nello spettrofotometro una sorgente di luce colpisce la cuvetta contenente il campione con l’analita che si vuole analizzare; quest’ultimo è in grado di assorbire la luce grazie alle sue proprietà. Dall’altra parte dello strumento un sistema di rilevazione è capace di determinare la quantità di fotoni non passati, e quindi sostanzialmente la quantità di luce assorbita dal campione.
Un monocromatore nel sistema, un prisma che si comporta come un filtro, permette il passaggio di una sola lunghezza d’onda desiderata, scindendo la luce nelle sue lunghezze d’onda costituenti e selezionando la λ d’interesse mediante una fenditura successiva; in questo modo consente di non valutare tutto lo spettro della luce visibile e studiare una determinata molecola ad una prestabilita lunghezza d’onda. Ogni molecola ha precisi livelli energetici associati alla propria natura e legami chimici, perciò assorbirà la luce di λ specifica fornendo spettri di assorbimento unici.
La legge fondamentale di Lambert-Beer stabilisce che se si mantiene costante il percorso di un fascio di luce ad una determinata lunghezza d’onda, l’assorbanza dell’analita risulta direttamente proporzionale alla sua concentrazione; quindi, più analita è presente nel campione, maggiore sarà la sua assorbanza di luce.

In questa legge bisogna tenere conto di due variabili:
il cammino ottico, cioè la distanza che deve percorrere il fascio di luce all’interno del campione
il coefficiente di estinzione molare, un numero che definisce il comportamento dell’analita a determinate condizioni e varia in relazione alle condizioni di temperatura e solvente, con la natura chimica del composto o con la lunghezza d’onda λ

Lo spettrofotometro consente di ottenere quindi misure qualitative e quantitative.

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6
Q

Come viene resa quantitativa l’analisi spettrofotometrica?

A

Per rendere quantitativa l’analisi spettrometrica è fondamentale avere uno standard. Spesso infatti non si può essere certi delle condizioni di proporzionalità diretta (linearità) tra assorbanza e concentrazione, ed è quindi preferibile utilizzare un metodo più sicuro, anche grafico.
Viene costruita, quindi, una curva di taratura, definita anche curva standard, sottoponendo ad assorbimento di radiazione specifica un certo numero di soluzioni a concentrazione nota e scalare dello stesso analita che si vuole quantificare. Si procede quindi con la costruzione di un grafico di riferimento, con i valori delle concentrazioni posti in ascisse e quelli degli assorbimenti in ordinate. Se la sostanza in esame segue la legge di Lambert-Beer, la curva che si ottiene è una retta. Ottenuta la retta, essa viene utilizzata per soluzioni di qualsiasi concentrazione, purché comprese nell’intervallo in cui la curva è stata tracciata. In questo modo si può comprendere la variazione di assorbanza relativa alle variazioni di concentrazione e, interpolando l’assorbanza della soluzione di interesse con la curva standard sarà possibile definire la concentrazione dell’analita in soluzione.
Consideriamo un esempio pratico: per la valutazione della concentrazione di creatinchinasi in un campione, ipotizzando che generi a 450 nm il picco di assorbanza, si confronta il valore di assorbanza ottenuto con una curva standard, ottenuta da una serie misurazioni a concentrazione nota di una preparazione pura di creatinchinasi; interpolando il valore del picco di assorbanza trovato con la curva standard sarà possibile definire la concentrazione di creatinchinasi nel siero.

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7
Q

Come la spettrofotometria viene sfruttata per la valutazione dell’attività enzimatica?

A

Per la quantificazione dell’attività enzimatica di un enzima non è possibile sfruttarne lo spettro di assorbimento, che risulta uguale per tutte le proteine e consente di avere informazioni solamente sulla concentrazione e quindi sulla massa. Per questi motivi, vengono sfruttate reazioni con molecole che hanno uno spettro unico, con un buon picco di assorbanza, come clorofilla o NAD; nel 1974, per esempio, Bergmeyer scoprì che la quantificazione delle reazioni enzimatiche che coinvolgono NADP poteva sfruttare la proprietà della forma ridotta, NADPH, di assorbire la luce a una lunghezza d’onda di 340 nm.

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8
Q

In che modo il dosaggio diretto dell’attività enzimatica mediante spettrofotometria sfrutta la presenza di specifici cofattori?

A

Consideriamo il dosaggio diretto della attività enzimatica della lattato deidrogenasi LDH. La lattato deidrogenasi catalizza la reazione reversibile di ossidazione del lattato a piruvato, con formazione di una molecola di NAD ridotto. L’attività enzimatica della lattato deidrogenasi può essere valutata monitorando il cambiamento dell’assorbanza a 340 nm del cofattore; il cambiamento di assorbanza in relazione al tempo è direttamente proporzionale all’attività dell’LDH quando il NAD+ è convertito in NADH.

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9
Q

In che modo il dosaggio diretto dell’attività enzimatica mediante spettrofotometria sfrutta specifici substrati enzimatici?

A

Inoltre, nel dosaggio diretto l’attività enzimatica può essere definita utilizzando specifici substrati enzimatici, basandosi sulla cinetica di reazione, in relazione alla velocità di comparsa di un prodotto, rilevabile mediante spettrofotometro.
La γ-glutamil transferasi (GGT, anche detta γ-glutamil transpeptidasi) è un enzima coinvolto nel trasferimento del gruppo gamma-glutamilico da un peptide all’altro. È un enzima utile nella valutazione della funzionalità epatica, usato nella rilevazione di fenomeni di colestasi.
Per la quantificazione dell’attività enzimatica della γ-GT può essere utilizzato il substrato γ-glutamil-4-nitroanilide, scisso in 4-nitroanilina, facilmente misurabile spettrofotometricamente; il tasso di formazione del 4-nitroanilina è proporzionale alla concentrazione catalitica di γ-GT presente nel campione di siero del paziente. Il metodo è stato introdotto intorno agli anni ’70 da Szasz; fino ad allora, le procedure di analisi non solo erano più macchinose da eseguire, ma non consentivano il monitoraggio della reazione. Il dosaggio invece è in questo modo semplice, ben caratterizzato, ed è quindi ancora in uso circa 30 anni dopo la sua introduzione.

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10
Q

Come si procede alla valutazione spettrofotometrica dell’attività enzimatica mediante dosaggio accoppiato?

A

Se nella reazione enzimatica non compaiono molecole con diverse proprietà di assorbimento della luce, l’attività enzimatica può essere definita mediante un dosaggio accoppiato, cioè accoppiando la reazione con altre che possono, invece, essere seguite spettroscopicamente.
Per esempio, la cretinchinasi catalizza la fosforilazione della creatina a fosfocreatina, con rilascio di ADP, nonché la reazione inversa con formazione di ATP da ADP. La reazione non utilizza NAD, per cui può essere allestito un saggio che consenta di ottenere una sequenza di reazioni enzimatiche, che culmineranno a loro volta in una reazione enzimatica che utilizzerà NAD+ o NADP+, per andare successivamente a valutare il NADH o il NADPH.
In tal caso, l’ATP generato viene utilizzato per permettere che si verifichi un’altra reazione, catalizzata dall’esochinasi: aggiungendo glucosio, l’esochinasi utilizzerà lo stesso ATP ricavato dall’azione della cretinchinasi, per produrre glucosio-6-fosfato. Questo prodotto verrà ulteriormente convertito in 6-fosfogluconato, grazie all’introduzione nel campione dell’enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi, che utilizza come coenzima l’NADP+. La misurazione spettrofotometrica dell’NADPH consente di ottenere informazioni sull’attività della creatinchinasi.

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11
Q

Come viene espressa nei referti l’attività enzimatica?

A

L’attività enzimatica è un riflesso di quanto rapidamente procede una reazione in presenza di un enzima. Maggiore è il quantitativo di enzima, più rapida sarà la reazione; minore è il quantitativo di enzima, più lenta sarà la reazione. L’attività enzimatica viene espressa nei referti in unità enzimatica (U), nota anche come Unità Internazionale.
Una U viene definita come la quantità di un enzima che catalizza la conversione di 1 μmole di substrato in un minuto alla temperatura di 25 °C e ai valori di pH e di concentrazione di substrato tali da sviluppare la massima velocità di conversione del substrato stesso. Questo rappresenta quindi il metodo con cui è stata standardizzata la misurazione dell’attività enzimatica a livello internazionale; in alternativa è possibile utilizzare anche semplicemente μmol/min per indicare l’attività di un enzima nel provocare la trasformazione di una μmole di substrato nell’unità di tempo.
Poiché il minuto non è un’unità del SI, il suo uso è stato scoraggiato in favore del katal, la quantità di un enzima che converte 1 mole di substrato in un secondo, quindi esprimibile anche come mol/sec.

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12
Q

Perché è importante ridurre la variabilità tra i metodi di misurazione nei test di laboratorio? Come viene fatto ciò in generale e nel caso della quantificazione dell’attività enzimatica?

A

I risultati dei test di medicina di laboratorio influenzano un’alta percentuale di tutte le decisioni cliniche ed è quindi fondamentale ridurre la variabilità tra i metodi di misurazione. La produzione e l’adozione di materiali e metodi di riferimento sono fattori determinanti per risultati di misurazione ripetibili, e comparabili, nonché affidabili per i pazienti.
Nel caso dell’analisi dell’attività enzimatica, mediante lo studio del comportamento di forme ultra-pure e controllate, gli standard (materiali di riferimento), è stato possibile definire l’attività degli enzimi a concentrazioni crescenti, ottenendo valori riconducibili alle procedure di riferimento e quindi accurati.
L’importanza relativa al controllo della analisi di laboratorio si comprende dal fatto che gli standard non vengono generati dal laboratorio o dall’ospedale, bensì dalle agenzie governative, le quali, appunto, forniscono a tutto il mondo materiali di riferimento primari con i rispettivi valori di riferimento, poi utilizzati nelle analisi dei campioni biologici a scopo clinico.

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13
Q

In che modo si correggono le interferenze d’analisi spettrofotometrica di campioni complessi grazie al blanking?

A

Dato lo standard di referenza, nella valutazione dell’attività enzimatica nei campioni dei pazienti devono anche essere considerate le possibili variabili che possono interferire con la misurazione quando si ha a che fare con un campione complesso come sangue, plasma, siero.
Per fare un esempio pratico, consideriamo l’utilizzo odierno dello spettrofotometro per misurare la concentrazione di albumina nel sangue.
L’albumina viene fatta reagire con il blu di bromocresolo, un colorante che una volta legata la proteina inizia a generare un cromogeno quantificabile ad una lunghezza d’onda di 628 nm. Il colorante è il tracciante, utilizzato per la sua capacità di interagire in maniera specifica con l’albumina, formando un cromogeno che, mediante la lettura allo spettrofotometro, consente di avere un dato quantitativo del contenuto di albumina nel sangue.
Quando questo tipo di test è entrato in ambito clinico si è riscontrato che probabilmente alcune sostanze possono dare interferenza alla stessa lunghezza d’onda del blu di bromocresolo legato all’albumina; se anche altre sostanze nel campione di sangue assorbono la luce a 628 nm, la loro lettura dell’assorbanza potrebbe essere erroneamente attribuita all’albumina e la concentrazione di albumina risultante sarà sovrastimata.
Per rimuove l’interferenza, in questo caso, si adotta una strategia nota come blanking, termine che descrive una correzione per i costituenti di fondo che contribuiscono direttamente al segnale misurato.
Per correggere queste altre sostanze, il campione in esame può essere letto a 628 nm, prima dell’aggiunta del colorante, in modo da definire un valore iniziale di assorbanza; solo l’ulteriore aumento di assorbanza quando vengono aggiunti i reagenti farà riferimento alla concentrazione di albumina. In questo modo viene, infatti, stabilito un plateau che permette l’esclusione di tutte le molecole che a 628 nm interferiscono con la misurazione. Il blanking quindi consiste quindi nel settare uno strumento in base al campione considerato e leggerlo ad una lunghezza d’onda specifica, al fine di escludere già in un primo momento le eventuali interferenze. Successivamente si procede con l’aggiunta del reagente e si monitora l’ulteriore aumento di assorbanza; quest’ultima, dopo aver eliminato parte delle interferenze, diventa più specifica per il legame del tracciante con la proteina d’interesse.

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14
Q
A

Talvolta alcune sostanze presenti nel campione reagiscono con i reagenti per produrre prodotti che assorbono la luce alla stessa lunghezza d’onda del prodotto dell’analita. In tal caso, il blanking prima dell’aggiunta del reagente non correggerà le sostanze interferenti poiché il colore non si forma finché non viene aggiunto il reagente. Tuttavia, in molti casi le condizioni di reazione (come il pH della soluzione o la concentrazione di reagenti) possono essere scelti in modo che la sostanza interferente reagisca in un momento diverso rispetto all’analita target; così, definendo una finestra temporale specifica per la valutazione delle reazioni, si potrà analizzare solo l’analita target.
Un esempio dell’utilità di finestre temporali specifiche per la misurazione delle reazioni si riscontra nel metodo di Jaffe per la creatinina per la valutazione della funzionalità renale. In questa reazione la creatinina reagisce con una soluzione di picrato alcalino (il tracciante), per formare un composto giallo-arancio; tuttavia, altri prodotti nel sangue reagiscono con il picrato alcalino, tra cui soprattutto acetoacetato e proteine.
Studiando il comportamento di queste interazioni è stato possibile definire che:
- il tracciante della creatinina reagisce con l’acetoacetato nel giro di pochissimi secondi, circa 20, dopodiché l’interazione si satura
-il tracciante reagisce con le proteine del sangue attraverso un’interazione un po’ più lenta, che avviene dopo circa un minuto dall’aggiunta del tracciante
-la creatinina reagisce con il tracciante dopo i primi 20 secondi
Queste valutazioni hanno permesso di stabilire una finestra temporale che inizia dopo 20 secondi e termina entro il primo minuto, che rifletterà il prodotto formato dalla creatinina, con poca interferenza da parte dell’acetoacetato o delle proteine.

Dall’esempio si comprende quindi l’importanza del tempo: questi test clinici sfruttano la possibilità di monitorare nel tempo il valore di crescita dell’assorbanza, al fine di dare un’idea specifica dell’attività di un enzima, o in questo caso, della concentrazione di una molecola come la creatinina. La quantificazione che ne deriva però può essere fatta avendo a disposizione parallelamente il comportamento dello standard nello stesso arco di tempo.
Si tratta di misurazioni dinamiche che non vengono svolte tuttavia per tutti gli enzimi ma solo per quelle sostanze di cui si conoscono le interferenze. Il caso della creatinina, ad esempio, è stato molto studiato perché si tratta di una sostanza ampiamente utilizzata; proprio per questo si cerca ancora oggi di perfezionarne la quantificazione riducendo il più possibile l’errore. Però per tante altre sostanze questo lavoro di indagine e valutazione dell’effettiva validità e specificità dell’analisi non è ancora stato eseguito.

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15
Q

Come vengono quantificate le proteine in un campione come massa proteica?

A

La quantificazione delle proteine in un campione, come massa proteica, segue procedure diverse. Per esempio, se si volesse procedere al dosaggio delle troponine, ad esempio per la valutazione del danno cardiaco, non si potranno utilizzare tecniche di spettrofotometria, ma si dovrà fare riferimento ad analisi più accurate, ad esempio mediante l’utilizzo di anticorpi in tecniche di immunochimica.

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16
Q

Cos’è l’immunochimica e quali sono i principali campi di applicazione?

A

Con il termine immunochimica si identificano metodi analitici, caratterizzati da elevata sensibilità e specificità, che per l’identificazione di una sostanza sfruttano lo specifico legame tra strutture tridimensionali. Queste tecniche prendono il nome di ligand assay e nella maggior parte dei casi sono basate sull’impiego di anticorpi per l’identificazione dell’analita, considerato quindi antigene. La quantificazione dell’analita avviene mediante un tracciante che, in determinate condizioni, permette di rilevare un segnale proporzionale al numero di complessi antigeni-anticorpi che si formano nella reazione.
Questo sistema permette di eseguire diverse analisi, non solo di laboratorio, ma viene ad esempio utilizzato anche in anatomia patologica per le colorazioni istologiche, per visualizzare, mediante reazioni antigene-anticorpo, elementi particolari nel tessuto, come l’espressione di una proteina o la presenza di un marcatore.
In biochimica clinica i campioni generalmente utilizzati sono fluidi: il sangue nelle varie matrici (intero, plasma o siero), urine, liquido cefalo-rachidiano, ecc. In tal caso l’immunochimica viene eseguita in una soluzione contenente l’analita.

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17
Q

Quali sono gli elementi principali di un saggio immunochimico?

A

Nei dosaggi immunochimici gli elementi fondamentali sono:
- l’analita: costituisce il target all’interno del campione che si vuole dosare
- un anticorpo specifico per quel target
- un tracciante che permette rilevare la reazione e valutare il legame dell’anticorpo alla proteina di interesse

18
Q

Quali sono gli analiti nei dosaggi immunochimici?

A

Nel dosaggio immunochimico gli analiti sono gli antigeni verso i quali vengono prodotti anticorpi specifici. Gli antigeni sono generalmente macromolecole (proteine, glicoproteine, polisaccaridi) che possono esprimere numerosi epitopi differenti. Il determinante antigenico o epitopo costituisce la regione dell’antigene che viene riconosciuta specificamente dall’anticorpo. Gli antigeni in grado di suscitare una risposta immunitaria sono detti immunogeni.
Le molecole a basso peso molecolare (inferiore a 2 kDa) possono essere antigeniche, cioè in grado di essere riconosciute da un anticorpo, ma non immunogene, per cui sono definite apteni. Per produrre anticorpi diretti verso un aptene, quest’ultimo viene coniugato ad un carrier, come una proteina o un gruppo glucidico, che lo rendono immunogeno.
I metodi immunochimici possono essere impiegati per la misura di ogni analita che sia in grado di essere riconosciuto e legato dall’anticorpo; gli stessi anticorpi ad esempio possono costituire gli antigeni di Ab anti-Ab, come avviene nei metodi immunochimici per la ricerca di anticorpi prodotti durante particolari infezioni o patologie autoimmuni.

19
Q

Quali sono le molecole leganti nei test immunochimici e quali sono le loro caratteristiche?

A

Le molecole leganti, generalmente, nei metodi immunochimici sono anticorpi; solo in alcuni casi sono utilizzate altre molecole, ad esempio recettori.
Gli anticorpi sono caratterizzati da elevata affinità per l’antigene, ma anche da elevata specificità, cioè la capacità di distinguere l’analita da altre molecole con struttura simile.
Gli anticorpi si distinguono in policlonali e monoclonali.

20
Q

Cosa sono gli anticorpi policlonali e come si producono?

A

Gli anticorpi policlonali sono miscele eterogenee di anticorpi che derivano da cloni plasmacellulari diversi e che riconoscono epitopi diversi di uno stesso antigene.
Fisiologicamente l’uomo produce anticorpi nelle risposte immunitarie, ma per ottenere anticorpi in laboratorio, negli ospedali e nelle aziende farmaceutiche sono necessarie determinate procedure.
La produzione di anticorpi policlonali avviene immunizzando un animale, ad esempio coniglio o capra, con un antigene. Gli anticorpi che risultano da questa immunizzazione saranno diversi perché prodotti da plasmacellule diverse e ognuno di essi riconoscerà un epitopo diverso dello stesso antigene.
Si prenda in considerazione lo sviluppo di anticorpi policlonali diretti contro la troponina, che presenta sequenza amminoacidica nota.
Si seleziona una piccola porzione di troponina di circa 15-20 aminoacidi: si tratta quindi di parecchi epitopi, considerando che questi sono generalmente costituiti da circa 2-3 aminoacidi. Il peptide selezionato di troponina, ottenibile tramite purificazione o costruito mediante ricombinazione, viene iniettato in un animale, che risponderà a quel frammento attraverso una risposta immunitaria contro tutti gli epitopi di quel peptide.
Il risultato, purificando gli anticorpi prodotti dall’animale, sarà una popolazione eterogenea di anticorpi policlonali rivolti contro un frammento della proteina di interesse.

21
Q

Cosa sono gli anticorpi monoclonali e come si producono?

A

Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi che derivano da un unico clone plasmacellulare e che riconoscono quindi lo stesso epitopo dello stesso antigene. Per produrre anticorpi monoclonali si deve isolare e far proliferare una singola plasmacellula.
La produzione di anticorpi monoclonali sfrutta la tecnica dell’ibridoma. La tecnica dell’ibridoma fu ideata nel 1975 da Georges Köhler e César Milstein. La procedura di ibridizzazione inizia con l’iniezione di un antigene in un animale, provocando una risposta immunitaria, policlonale. Si procede quindi con il prelievo delle cellule B della milza e successivamente con la fusione a turno con una linea di cellule B tumorali immortalizzate, di tipo mieloma, per produrre una linea cellulare ibrida chiamata ibridoma, che possiede sia l’abilità di produrre anticorpi delle cellule B, sia longevità e riproduttività esasperate tipiche del mieloma. Come risultato si otterranno colture cellulari, ciascuna delle quali consiste di ibridomi identici che possono produrre un anticorpo diverso per coltura, cioè monoclonale. Si potranno quindi selezione gli anticorpi per ottenere quello di maggior interesse, cioè quello più efficiente verso la proteina o l’antigene preso in considerazione.
I monoclonali vengono notevolmente utilizzati a scopo terapeutico perché consentono di ottenere risposte molto più efficaci.

22
Q

Quali sono i traccianti nei dosaggi immunochimici?

A

Il tracciante è una sostanza che nella reazione anticorpo-antigene è in grado di rivelare l’avvenuto legame tra l’analita e l’anticorpo. In questi tipi di test il tracciante può essere legato sia all’analita sia, nella maggior parte dei casi, all’anticorpo. Il legame chimico con l’Ag o con l’Ab deve però, affinché il tracciante sia valido, avere la minore interferenza possibile con la formazione del complesso Ag-Ab.
I traccianti più utilizzati nell’immunochimica sono:
- enzimi
- sostanze fluorescenti
- sostanze radioattive
- chemioluminescenti

23
Q

Cosa sono i traccianti radioattivi e quali le loro caratteristiche?

A

I principali radioelementi utilizzati come marcatori in radio immunochimica sono ad esempio 125Iodio, 131Iodio, 3H (trizio). Come vantaggio, i segnali emessi sono molto specifici e non modificano sostanzialmente il comportamento immunologico del marcato. Si è lavorato con questi materiali fino agli anni ’80, infatti tutti i primi dosaggi ormonali sono stati eseguiti con tale metodica. Le limitazioni al loro utilizzo, invece, sono legate alle normative che regolano l’utilizzo dei radioelementi e ne definiscono la modalità, nonché alla difficoltà nella realizzazione di strumenti che siano completamente automatizzati.

24
Q

Cosa sono i traccianti fluorescenti e quali le loro caratteristiche?

A

I traccianti fluorescenti (fluorofori) sono sostanze in grado di riemettere le onde magnetiche ricevute in seguito ad eccitazione con radiazioni ad una λ dell’UV o del visibile. L’intensità del segnale emesso dipende dalla potenza della sorgente e dalle caratteristiche dei fluorofori. I fluorofori più comuni, come per esempio la fluoresceina, emettono segnali intensi ma poco specifici, a causa di vari fenomeni interferenti che concorrono ad aumentare il fenomeno del rumore di fondo.
Le molecole fluorescenti, alcune delle quali riscontrabili anche in natura, ad esempio nelle meduse, hanno trovato però largo impiego in vari ambiti in quanto presentano caratteristiche differenti di eccitazione ed emissione della fluorescenza, consentendo di tracciare diverse reazioni, sfruttando le loro proprietà. Negli immunoassay solitamente la molecola fluorescente viene attaccata all’anticorpo.

25
Q

Cosa sono i traccianti chemioluminescenti e quali sono le loro caratteristiche?

A

I traccianti chemiluminescenti sono molecole la cui eccitazione e conseguente emissione di radiazioni luminose è ottenuta con l’apporto di energia chimica, in genere derivante dalla rapida ossidazione della molecola. Ne è un esempio il luminolo, che trasformato in una specie eccitata in reazioni di ossidazione in presenza di perossido di idrogeno e di un catalizzatore enzimatico (perossidasi), torna poi allo stato fondamentale con l’emissione di fotoni di energia (hv).

26
Q

Quali sono i traccianti enzimatici e quali le loro caratteristiche?

A

Nelle determinazioni immunoenzimatiche il marcato è costituito da un anticorpo associato ad un enzima: la misura dell’attività enzimatica consente di valutare la quantità di marcato libero o legato nell’immunocomplesso. La quantificazione si ottiene aggiungendo il substrato dell’enzima, in modo che venga emesso un segnale, quantitativamente misurabile, proporzionale all’attività catalitica dell’enzima e quindi alla sua concentrazione.
Commercialmente, gli enzimi principalmente utilizzati per rilevare una reazione antigene-anticorpo sono:
- perossidasi
- fosfatasi alcalina
- β-galattosidasi

27
Q

Quali sono le caratteristiche dei substrati utilizzati per i dosaggi immunoenzimatici?

A

I substrati principalmente utilizzati nel sistema di rivelazione si distinguono in:
- substrati cromogeni, molecole la cui trasformazione chimica catalizzata dall’enzima, il tracciante, porta a una modifica del loro spettro di assorbimento; ne è un esempio è il p-nitrofenolfosfato, che viene trasformato nella reazione catalizzata dalla fosfatasi alcalina in p-nitrofenolo, il cui picco di assorbimento luminoso è ad una lunghezza d’onda di 405 nm, e in fosfato inorganico
- substrati fluorogeni, molecole invece la cui trasformazione dà origine a molecole fluorescenti; ne è un esempio il 4-metil-umbelliferil-βgalacto-piranoside, idrolizzato nella reazione enzimatica catalizzata dalla β-galattosidasi in 4-metil-umbelliferone, composto fluorescente la cui lunghezza massima di eccitazione è 364 nm, quella del picco di emissione a 448 nm

28
Q

Quali sono le principali tecniche di immunochimica?

A

Le principali tecniche sfruttate in immunochimica sono:
- tecniche di immunoassorbimento
- Western blotting
- immunocitochimica o immunoistochimica
- immunofluorescenza

29
Q

Cos’è il test ELISA e come avviene l’analisi?

A

Il saggio immuno-assorbente legato ad un enzima (ELISA, Enzyme-linked Immunosorbent Assay) è un versatile metodo di analisi immunologica, basato sull’utilizzo di anticorpi marcati con un enzima; in questa tecnica, uno dei componenti (antigene o anticorpo) è adeso alla piastra, per cui la reazione antigene-anticorpo è immobilizzata e potrà facilmente essere evidenziata con l’addizione del substrato, che reagendo con l’enzima produrrà un segnale quantificabile.
Il saggio può essere condotto attraverso:
- metodi diretti, in cui viene individuato e dosato l’antigene mediante anticorpi marcati
- metodi indiretti, in cui viene individuato e quantificato l’anticorpo legato ad uno specifico antigene, mediante l’utilizzo di anticorpi secondari marcati
I metodi si distinguono anche in competitivi e non competitivi.

Si consideri, ad esempio, un campione di sangue, di cui viene purificato il siero: è il siero di un paziente che probabilmente ha subito un infarto del miocardio 4 ore prima. Si intende misurare il valore della troponina.
Per far avvenire la reazione immunoenzimatica, viene aggiunto l’anticorpo coniugato all’enzima (la perossidasi per esempio) al campione. L’anticorpo marcato legherà la troponina. Separando l’anticorpo legato da quello non legato, sarà possibile quantificare unicamente gli anticorpi nell’immunocomplesso mediante la reazione avvenuta all’interno del campione sfruttando l’enzima. Per innescare la reazione è necessario aggiungere il substrato dell’enzima, che sarà convertito in composti che variano colore o emettono fluorescenza in presenza dell’attività enzimatica, rivelando quindi i legami anticorpo-troponina che si sono formati nel campione. Nel caso della perossidasi si aggiunge perossido di idrogeno.
In questa valutazione, la fase fondamentale è la separazione dell’anticorpo legato dall’anticorpo non legato, in modo da valutare esclusivamente quello che si è legato alla troponina. Diversamente si avrebbe una reazione totale di tutto l’anticorpo aggiunto al campione. Per tale ragione, la maggior parte dei saggi immunoenzimatici è effettuata in fase solida, di modo che immobilizzando la reazione sul fondo di una provetta, in un pozzetto, si valuti solamente l’anticorpo legato, dopo aver lavato via l’anticorpo non legato alla troponina.
È fondamentale che si analizzi tutta la troponina presente nel campione, per cui il rapporto tra anticorpo utilizzato e potenziale quantità di analita presente nel campione deve essere studiato. Solitamente si lavora in eccesso di anticorpi per avere la certezza di non perdere alcuna quantità di analita.

30
Q

Quali sono le metodologie per il test ELISA diretto?

A

L’ELISA diretto si effettua secondo diverse metodiche:
- semplice
- sandwich ELISA

31
Q

Come viene effettuato il dosaggio mediante ELISA diretto semplice?

A

Nel metodo diretto semplice si individua e quantifica l’antigene. Innanzitutto si copre il fondo del pozzetto con l’estratto proteico in cui potrebbe essere presente la proteina d’interesse (antigene). Si lava via l’eccesso per eliminare l’indesiderato. Si aggiunge l’anticorpo marcato per l’antigene. Si lava via l’eccesso ancora una volta per eliminare eventuali anticorpi non legatisi all’antigene (quelli combinati resistono invece al lavaggio). Infine si aggiunge il substrato dell’enzima con cui è stato marcato l’anticorpo in modo da rilevare la quantità di antigene. Tra tutti i tipi di ELISA, tuttavia, questo è il meno preciso ed efficiente.

32
Q

Come viene effettuato il dosaggio nella tecnica ELISA diretto a sandwich?

A

Il metodo più diffuso è il cosiddetto sistema a sandwich, introdotto nella seconda metà degli anni Ottanta e ulteriormente evolutosi con l’introduzione degli anticorpi monoclonali. In tale sistema vengono utilizzati due anticorpi, presenti in eccesso rispetto all’analita da analizzare, che riconoscono epitopi diversi dell’analita e non sono interferenti tra loro; in questo modo si evita di perdere l’analita, ma si aumenta anche la specificità di legame.
Nel saggio immunoenzimatico a sandwich si prepara in primis la fase solida con il primo anticorpo, definito anticorpo di cattura. Si procede quindi con l’incubazione del campione contenente l’antigene, di modo che l’anticorpo di cattura sia in grado di riconoscere l’antigene. Dopo il lavaggio, il complesso Ag-Ab formato e immobilizzato viene messo a contatto con il secondo anticorpo, l’anticorpo di rilevazione, marcato con l’enzima, che riconoscerà il secondo sito antigenico.
La misura dell’attività enzimatica risulterà, quindi, direttamente proporzionale alla concentrazione dell’antigene da stimare

Consideriamo nuovamente, ad esempio, la valutazione della troponina: un primo anticorpo fissato sul fondo del pozzetto lega tutta la troponina presente nel campione. Al campione si aggiunge successivamente il secondo anticorpo contro la troponina, solitamente coniugato con il tracciante, di modo che il primo anticorpo blocchi l’analita e il secondo anticorpo chiuda il sandwich. A questo punto, si rimuove ciò che non è necessario lavando il campione. Si fa avvenire la reazione di sviluppo sfruttando l’attività enzimatica dell’enzima coniugato all’anticorpo. Questa sarà direttamente proporzionale alla concentrazione di troponina. Più reazione si ottiene, più troponina è presente. Per quantificarla si utilizza l’analisi spettrofotometrica, per cui, interpolando il valore di assorbanza ottenuto con una curva standard, generata utilizzando la troponina come materiale di referenza, si ottiene una quantificazione assoluta della troponina nel campione.

33
Q

Quali sono le metodologie per il test ELISA indiretto?

A

Anche il test ELISA indiretto si effettua secondo diverse metodiche:
- semplice
- a sandwich

34
Q

Come viene effettuato il dosaggio nella tecnica ELISA indiretto semplice?

A

Nel metodo indiretto, si individua e quantifica un anticorpo invece di un antigene L’antigene è ancorato ad una superficie solida. Si fa reagire una soluzione contente l’anticorpo da quantificare (es. siero contenente IgG). Dopo aver lavato, si aggiunge un secondo anticorpo (anticorpo secondario), che riconosce l’anticorpo primario. L’anticorpo secondario è generalmente coniugato all’enzima. Si lava di nuovo e si aggiunge il substrato dell’enzima: l’attività misurata sarà direttamente proporzionale alla quantità di anticorpo presente nel siero originale.

35
Q

Come viene effettuato il dosaggio nella tecnica ELISA indiretto a sandwich?

A

Analogamente a quanto accade nel metodo diretto, anche il dosaggio indiretto può essere condotto con una variante a sandwich. Un anticorpo specifico è legato al supporto solido, si fa reagire una soluzione ignota di antigene con l’anticorpo legato al supporto; si lava e si aggiunge un secondo anticorpo capace di riconoscere un diverso epitopo dell’antigene. Dopo un secondo lavaggio si aggiunge un terzo anticorpo, capace di legarsi al secondo, marcato con l’enzima. Dopo opportuni lavaggi, viene aggiunto il substrato dell’enzima: l’attività enzimatica misurata sarà direttamente proporzionale alla quantità di antigene presente.

36
Q

Quali sono i principali vantaggi nell’utilizzo della tecnica ELISA?

A

La tecnica Elisa presenta specifici vantaggi nel suo utilizzo; è una tecnica vantaggiosa dato il basso costo è l’alta specificità; è stabile dopo blocco della reazione, costituendo un metodo di dosaggio semplice, sensibile, rapido, facilmente misurabile ad appropriate lunghezze d’onda.

37
Q

Quali sono i limiti principali che si riscontrano nell’utilizzo dei saggi immunochimici?

A

Sebbene oggigiorno la metodica di analisi nei saggi immunochimici sia stata automatizzata, la loro precisione aumentata grazie a metodiche a sandwich, sono emersi anche dei limiti importanti legati all’utilizzo delle tecniche immunochimiche, come dimostrato da errori nei saggi di alcune proteine.
Nonostante gli innumerevoli passi in avanti fatti nell’ingegnerizzazione e produzione degli anticorpi, caratterizzati da elevata specificità, sono ancora possibili nei saggi moderni interferenze legate alla presenza di autoanticorpi, fattori reumatoidi (anticorpI diretto verso la porzione Fc delle IgG), anticorpi umani anti-proteine animali, o fenomeni di reattività crociata, che determinano una sovrastima o sottostima dell’antigene nel campione.
Negli ultimi anni, per esempio, la diffusione nell’utilizzo di terapie a base di anticorpi monoclonali o generati a partire da animali, ha portato allo sviluppo in un numero crescente di individui di anticorpi anti-animali o human anti-animal [immunoglobulins] antibodies HAAAs. Anticorpi umani capaci di legare Ig di altre specie animali, che possono essere presenti nel siero/plasma dei pazienti con una prevalenza fino al 10%, possono legarsi agli anticorpi di provenienza animale utilizzati nei test immunologici e produrre risultati alterati. Infatti, molti dei sistemi di dosaggio immunologici in uso per la rilevazione di ormoni, farmaci, markers tumorali, utilizzano tra i loro componenti anticorpi di origine animale.
Sebbene l’incidenza di questi eventi sia abbastanza bassa, 0,05%, e quindi relativamente trascurabile, nel corso dello sviluppo dei saggi immunoenzimatici, poi portati in clinica, fino ad oggi, due sono quelli che hanno presentato maggiore difficoltà: il dosaggio del paratormone e quello della prolattina.

38
Q

Quali sono stati i problemi riscontrati nel dosaggio del paratormone e come è stato articolato lo sviluppo del saggio?

A

Lo sviluppo di un saggio di dosaggio del paratormone ha presentato diverse problematiche, legate alla scarsa conoscenza della sua biologia.
Il paratormone è un ormone di 84 amminoacidi, inizialmente dosato nel sangue mediante metodologia a sandwich.
Il dosaggio di prima generazione, considerando l’ormone come formato da 84 amminoacidi con una porzione centrale, una N-terminale e l’altra C-terminale, sfruttava due anticorpi: il primo (anticorpo di cattura) diretto contro la parte centrale, l’altro (anticorpo di rilevazione) specifico per la parte C-terminale. Al secondo anticorpo era legato l’enzima, che costituiva il sistema di rilevazione, consentendo, mediante la misurazione della sua attività enzimatica, di quantificava il paratormone.
In seguito, sfruttando il dosaggio si è notato che a moltissimi pazienti veniva diagnosticato l’iperparatiroidismo, mentre ad altri venivano rimosse le paratiroidi. Ci si rese ben presto conto che qualcosa non funzionava; in effetti, si constatò che il paratormone, una volta secreto, va immediatamente incontro a degradazione, non essendo più biologicamente attivo. I primi studi biochimici dimostrarono che, essendo un ormone piccolo, veniva degradato in frammenti più piccoli a partire dagli amminoacidi in posizione 30-40, che comprendevano la porzione centrale e C-terminale. Il test quindi presentava una cross-reattività proprio con questi frammenti (36-84, 44-84, 49-84), portando ad una sovrastima dell’ormone nel campione.

Per cercare di dosare meglio l’ormone si introdusse il dosaggio di seconda generazione, in cui uno dei due anticorpi era invece rivolto verso la regione amminoterminale, nella porzione 15-20 o 26-32. Tuttavia venne successivamente chiarito che la degradazione del paratormone è talmente veloce nel sangue, che coinvolge tutta la catena, ad eccezione dei primi 4 amminoacidi. Quindi, il frammento più grande di degradazione, 4-84, veniva riconosciuto e quantificato nel dosaggio, come anche il frammento 15-84. La cross-reattività con questi frammenti dimostrò che anche utilizzare un anticorpo rivolto alla porzione amminoterminale aveva poca funzionalità.

Infine, con l’introduzione dei dosaggi di terza generazione, è stato possibile introdurre un anticorpo diretto contro gli amminoacidi 1-4 della porzione amminoterminale e uno contro quella C-terminale. In questo modo si ha l’assoluta certezza che quello che viene incastrato nel sandwich è il paratormone intatto, misurato tutt’oggi nei dosaggi attraverso questa metodica.

39
Q

Quali sono stati i principali problemi nel dosaggio della prolattina e come è stato sviluppato il saggio di dosaggio?

A

Un altro dosaggio che ha presentato diverse problematiche nella sua messa a punto è stato quello della prolattina. Il rilevamento della prolattina sierica infatti può essere reso complesso dall’interferenza con tra il saggio e la macroprolattina, comportando spesso diagnosi di iperprolattinemia o prolattinomi ipofisari in individui in realtà sani.
Anche se la forma monomerica da 23 kDa è la forma predominante, la prolattina è presente anche in diverse forme molecolari da cui dipende l’attività dell’ormone. Tra le varianti riscontrabili, specialmente in situazioni di macroprolattinemia, vi sono forme di prolattina di 50 e 150 kDa, immuno-complessi PRL-IgG, che hanno elevate proprietà immunogeniche, ma scarsi o nessun effetto biologico.
Oggi per la risoluzione del problema, si utilizza un pretrattamento del campione con sostanze (PEG 6000) che precipitano le proteine del siero con peso molecolare maggiore a 100 KDa. La prolattina essendo più piccola resta in sospensione.

40
Q

Cosa sono le determinazioni immunochimiche label-free?

A

Le determinazioni immunochimiche che non impiegano un tracciante (label-free) sono quelle in cui si riesce a evidenziare la formazione del complesso Ag-Ab direttamente, senza ricorrere alla separazione delle forme non legate, né alla misura del segnale analitico emesso da un tracciante appositamente introdotto. Tra queste metodiche, fondamentali in biochimica clinica sono la nefelometria e la turbidimetria.

41
Q

Quali sono le principali tecniche immunochimiche senza tracciante utilizzate in biochimica clinica?

A

Le nefelometria e la turbidimetria sono le tecniche immunochimiche tra le più utilizzate senza bisogno di tracciante. Si basano sull’aspetto della soluzione dopo che è stato aggiunto un anticorpo specifico e sono molto spesso utilizzate nel dosaggio del fibrinogeno. Se al plasma viene aggiunto un anticorpo contro questa proteina si vanno a formare degli aggregati, che modificano le proprietà e la torbidità della soluzione. Come risultato, se si colpisce il campione con un raggio di luce, la diffusione della luce emessa varierà in modo direttamente proporzionale alla quantità di complessi che si sono formati. La differenza tra le due tecniche è rappresentata da come si comporta la luce durante il passaggio.
La turbidimetria viene applicata quando la dimensione delle particelle che provocano la torbidità è superiore o dell’ordine del μm, condizione nella quale è favorito l’assorbimento della luce incidente dopo che è avvenuta la formazione dell’immunocomplesso; viene quindi valutata l’intensità della luce trasmessa dalla sospensione, mediante colorimetri o spettrofotometro.
La nefelometria si sfrutta nel caso di particelle di più piccole dimensioni, dopo che è avvenuto il legame anticorpo-analita, condizione in cui prevale l’effetto diffusivo; in questo caso parte della luce viene deviata di circa 90° rispetto alla sorgente, per cui il sistema di rilevazione deve essere posizionato a circa 90° rispetto al raggio entrante.

42
Q

Quali altre tecniche ancora sono utilizzate in biochimica clinica?

A

Le tecniche di immunochimica e spettrofotometriche sono alla base della maggior parte delle analisi di laboratorio, tranne alcune eccezioni, ad esempio nella valutazione delle malattie autoimmuni che si basa sulla microscopia a fluorescenza, o per l’emostasi, la coagulazione e altre.