P6C2 Le misure patrimoniali Flashcards

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Q

[1] Le nuove tipologie di confisca

Le nuove tipologie di confisca

A

PERCHE NASCONO LE NUOVE FORME DI CONFISCA?
Il ricorso a nuovi strumenti di espropriazione rappresenta uno degli sforzi più significativi per contrastare adeguatamente le attività criminali per le quali il profitto rappresenta il proprio “obiettivo genetico che, una volta colpito, determina “l’estinzione per asfissia” delle attività stesse.

Proprio per questo, il legislatore si è mosso in due direzioni:
AMPLIAMENTO CONFISCA OBBLIGATORIA del 240
- In primo luogo, ha modificato la tradizionale ipotesi di confisca e previsto sempre più spesso ipotesi di confisca obbligatoria. In sostanza, ciò che nella disposizione originaria di cui all’art. 240 c.p. rappresenta l’eccezione (posto che il legislatore mostra una netta preferenza per le misure adottate a seguito di una valutazione discrezionale del giudice), nelle leggi speciali diventa la regola.
AMPLIAMENTO OGGETTO DELLA CONFISCA TRAMITE NUOVE FORME non del 240
- In secondo luogo, ha ampliato l’oggetto della confisca, attraverso l’introduzione della forma per equivalente o confisca di valore, che si realizza quando non è possibile sottoporre a confisca il bene che è in diretto rapporto con il reato, nonché di confisca allargata, estesa cioè all’intero patrimonio, prevista originariamente dall’art. 12 sexies della l. n. 356/1992 (oggi art. 240-bis c.p.).

COME SI QUALIFICANO QUESTE NUOVE IPOTESI DI CONFISCA?
Si registra, pertanto, nella legislazione speciale una tendenza all’utilizzo della confisca in un’ottica prevalentemente repressiva.
Per queste nuove declinazione della confisca, è difficile continuare a parlare di misura di sicurezza, poiché manca il presupposto fondamentale di esse: la “pericolosità” del bene.

DIFFERENZA CON LE MISURE DI SICUREZZA nel dettaglio
Infatti, prescindendo dalla loro caratteristica principale, vale a dire quella di incidere su beni la cui pericolosità si ricava proprio dal nesso di pertinenzialità che lega la cosa al reato, queste forme speciali di confisca tendono a indossare meglio la veste di pene, piuttosto che quella di misure di sicurezza.
La stessa Corte costituzionale ha evidenziato (sent. n. 29 del 27 maggio 1961) la varietà di natura e funzioni della confisca, tanto da autorizzare a far riferimento a singole ipotesi di confisca da individuare in concreto, piuttosto che ad una generica ed astratta figura.

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[2] La confisca per equivalente

La confisca per equivalente (o di valore)

A

L’INADEGUATEZZA DI BASE DEL 240
La confisca delineata dall’art. 240 c.p. si è rivelata nel tempo una misura spesso inadeguata a colpire in modo efficace il profitto, il prodotto o il prezzo conseguito dal reo, vale a dire il vantaggio illecito derivante dalla commissione dei c.d. reati economici.
Talvolta, infatti, i beni non presentano una relazione diretta, attuale e strumentale con il reato tale da costituire il fondamento di un giudizio prognostico in ordine alla pericolosità del bene.
Il problema si è posto soprattutto con riferimento alle ipotesi di profitto consistente in somme di denaro o beni frutto del diretto reimpiego da parte dell’autore del reato del denaro illecitamente conseguito ovvero nei casi di profitto frutto di un risparmio. Senza considerare, peraltro, che la norma dell’art. 240 c.p. prevede, in ordine al conseguimento del profitto o prodotto del reato, la confisca facoltativa e non quella obbligatoria.

SUPERAMENTO DELL’INADEGUATEZZA: CONFISCA PER EQUIVALENTE
Proprio al fine di superare tali inconvenienti il legislatore è dunque intervenuto introducendo la* confisca per equivalente (o di valore)*, quale strumento maggiormente efficace a sottrarre al soggetto attivo del reato il vantaggio economico conseguito attraverso la sua condotta, indipendentemente dal collegamento del bene con il fatto di reato (e quindi anche nei casi in cui non sia possibile individuare il bene oggetto del profitto, o nei casi in cui il bene non sia presente, essendo il profitto costituito da un risparmio di spesa).

PRESUPPOSTO DI OPERATIVITÀ
Presupposto di operatività dell’istituto è l’impossibilità di confiscare i beni originariamente coinvolti nella dinamica delittuosa costituenti il prezzo o il profitto del reato preso in considerazione (cioè dei beni che costituiscono un’utilità economica diretta del reato – rispettivamente, il “pagamento” ricevuto dal soggetto per commetterlo o il “guadagno” perseguito nella commissione).

NATURA GIURIDICA (DIFFERENTE DALLA MIS. DI SIC.)
In merito alla natura giuridica della confisca per equivalente, la giurisprudenza ha avuto modo affermare che essa, «costituendo una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti, viene ad assumere un carattere preminentemente sanzionatorio» (Cass. pen. Sez. Un., n. 41936 del 2005). In altre parole, tale confisca ha una funzione ripristinatoria della situazione economica modificata a favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l‘imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile, connotandosi perciò per il carattere afflittivo e per il rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale; mancando invece la funzione di prevenzione tipica delle misure di sicurezza, per la cui sussistenza è necessario che il bene confiscato presenti quel carattere di pericolosità derivante dal rapporto di pertinenzialità con il reato.

PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÀ DELLA SANZIONE PENALE
La qualificazione giuridica della confisca come sanzione penale comporta la necessità di applicare il principio di irretroattività della sanzione penale (contrariamente a quanto avviene per le misure di sicurezza che sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione e possono essere retroattive, ex art. 200 c.p.). In tal senso, anche Corte cost. ord. n. 97 del 2009.

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[3] Gli elementi della confisca per equivalente

Gli elementi della confisca per equivalente (o di valore)

A

Gli elementi costitutivi della confisca per equivalente si distinguono in elementi oggettivi e soggettivi.

ELEMENTI OGGETTIVI
Per quanto riguarda gli elementi oggettivi, occorre che:
1) sia stato commesso uno dei reati per i quali è prevista questa forma di confisca;
2) il reato sia stato consumato dopo l’entrata in vigore della norma;
3) a seguito della commissione del reato sia stata perseguita un’utilità economica rientrante in una delle categorie (profitto, prodotto, prezzo, interessi) per le quali sia prevista la confisca;
4) non sia stato possibile procedere al sequestro e alla confisca dell’utilità economica direttamente conseguita a seguito della condotta illecita.

LA NOZIONE DI UTILITÀ ECONOMICA
La giurisprudenza ha poi nel tempo specificato con più precisione la portata e il significato di tali elementi.
In primo luogo, il concetto di utilità economica. Le singole disposizioni, infatti, non richiamano una nozione unitaria e generica di esso, ma esigono che il vantaggio patrimoniale conseguito rientri nelle diverse e più specifiche nozioni di utilità di volta in volta richiamate dalla disposizione che prevede la misura.

LE NOZIONI DI PROFITTO, PRODOTTO E PREZZO DEL REATO
In proposito, le Sezioni Unite (dopo aver parimenti evidenziato l’assenza di una definizione normativa) hanno confermato le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di “profitto del reato” contenuta nell’art. 240, co. 1, c.p. secondo le quali questo «deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato. Il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito».

Una volta individuata la presenza di un’utilità economica conseguita a seguito del reato, ai fini della confisca per equivalente occorre individuare l’esatta entità, vale a dire il valore corrispondente e non superiore a quello illecitamente conseguito.

ELEMENTI SOGGETTIVI
Per quanto riguarda gli elementi soggettivi risulta necessaria:
1) la presenza di una sentenza di condanna o di patteggiamento per un reato che prevede la confisca per equivalente nei confronti del soggetto che la subisce;
2) la presenza di un’utilità illecita conseguita a seguito del reato da parte del reo.

LA TRASFORMAZIONE DEL 240 ALL’ESITO DELL’INTRODUZIONE DELLA CONFISCA PER EQUIVALENTE
In conclusione, si può osservare come l’introduzione della confisca per equivalente abbia invertito rapporto di regola-eccezione, tramutando la regola della facoltatività in eccezione e rendendo regolarmente obbligatoria la confisca per equivalente, con la conseguente trasformazione dell’art. 240 c.p. in una disposizione residuale.

La radicale disparità di trattamento tra confisca diretta e confisca per equivalente impone la necessità di tener ben distinti i presupposti applicativi delle due misure, il che non è sempre agevole, soprattutto quando si tratta di confiscare somme di denaro presso un conto corrente bancario.

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La giurisprudenza sulla definizione in concreto di utilità economica

A

La definizione in concreto di utilità economica ha creato maggiori contrasti e sulla quale spesso si è pronunciata la Corte di Cassazione è quella del profitto confiscabile. Due sono i problemi che la giurisprudenza ha affrontato:
- la distinzione tra profitto lordo e netto, per individuare quale sia concretamente l’oggetto della misura ablatoria. Problematica che, tuttavia, non ha ricevuto una soluzione generalmente condivisa, dato che si tratta di costi legati ad un’attività criminosa;
- il concetto di profitto maturato a seguito di reati commessi nell’ambito di un rapporto negoziale tra il reo e il soggetto passivo, in ordine al quale rileva la distinzione tra reati-contratto e reati in contratto: per i primi la nozione di profitto comprende qualsiasi cosa proveniente da reato, coincidente con quanto ricevuto illecitamente dal reo, senza distinguere tra profitto e utile netto, con la conseguenza che tutta la prestazione risulta illecita ed il suo valore deve essere interamente confiscato; il secondo, invece, si caratterizza per il fatto che il comportamento incide solo sulla fase della formazione della volontà contrattuale o sulla esecuzione del contratto, rendendo il contratto eventualmente annullabile. In questi casi, in cui il profitto tratto dall’agente non è interamente ricollegabile ad una condotta penalmente sanzionata, si deve differenziare il vantaggio economico derivante dal reato.

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[4] Confisca per equivalente e responsabiità degli enti

La confisca per equivalente (o di valore) e Responsabilità degli enti

A

Il ruolo fondamentale della confisca per equivalente nel nostro ordinamento si evidenzia con particolare risalto nella disciplina del d.lgs. n. 231 del 2001, disciplinante la responsabilità delle società e degli enti collettivi (v. più sopra). In questa disciplina, la confisca per equivalente assume infatti sia la veste di sanzione da comminare alla persona giuridica responsabile dell’illecito (art. 19), sia quella di misura cautelare (art. 53) .

Ciononostante, l’art. 240 c.p. è disposizione di cruciale rilievo nel nostro ordinamento in quanto, seppur la sua applicazione si sia progressivamente ristretta, esso delinea in termini generali il quadro degli oggetti suscettibili di confisca ai quali la legislazione speciale si riconnette.

231: CONFISCA POST-CONDANNA E CONFISCA DEL REATO COMMESSO DA PERSONE APICALI
Infatti, nell’ambito del d.lgs. n. 231/2001, l’istituto della confisca si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare. La sentenza della Cass. ha evidenziato come:
− laddove la confisca del prezzo o del profitto segue la sentenza di condanna dell’ente, essa figura come sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre sanzioni;
− è prevista la confisca del profitto del reato commesso da persone che rivestono funzioni apicali, anche nell’ipotesi in cui l’ente sia esonerato da responsabilità.In questa ipotesi, proprio per l’assenza della responsabilità dell’ente, si ritiene che la natura della confisca non sia sanzionatoria, quanto piuttosto quella di strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti economici sono andati a vantaggio dell’ente collettivo che in tal modo finirebbe per conseguire – seppur incolpevolmente – un profitto geneticamente illecito (e infatti in questo caso non si può disporre il sequestro preventivo , che invece è ammissibile in caso di condanna). In questo caso, la confisca ha una funzione ripristinatoria della situazione economica precedente alla commissione del fatto illecito.

REQUISITI SPECIFICI DELLA CONFISCA PER EQUIVALENTE
Con specifico riguardo alla confisca per equivalente nei confronti dell’ente, devono ricorrere alcuni elementi:
1) deve esservi una condanna per uno dei reati per i quali il decreto prevede questa forma di responsabilità per l’ente;
2) il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di un soggetto qualificato;
3) l’impossibilità di procedere direttamente all’apprensione dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato.

DEFINIZIONE DEL TANTUNDEM
Poi occorre procedere alla determinazione del c.d. tantundem, vale a dire all’ammontare del prezzo o del profitto al fine di determinare il valore dei beni corrispondenti. In assenza di una definizione normativa sul punto si discute se la nozione di profitto sia configurabile in senso economico o in un senso più specificatamente penale (mero guadagno economico, al netto dei costi, oppure ricavo complessivo derivante dalla commissione dell’illecito).
La Corte di Cassazione ha chiarito che il profitto si identifichi con il complesso di vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti.

Sempre con riferimento all’individuazione del tantundem, si segnala come siano sorti particolari problemi per i beni di valore superiore a quello del profitto, non separabili senza diminuirne il valore complessivo, in modo da procedere agevolmente ad una loro ablazione o sequestro parziali (ad es. i cespiti immobiliari, ma anche titoli azionari non frazionabili oppure facenti parte di un pacchetto di controllo).
In questi casi, la dottrina esclude che si possa procedere alla confisca del bene, in quanto la norma richiede espressamente l’equivalenza del valore del bene da confiscare rispetto a quello del prezzo o profitto del reato. Secondo tale teoria, l’esistenza di un bene di valore equivalente da sottoporre a requisizione è una sorta di presupposto implicito del provvedimento ablatorio in questione.

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[5] Confisca per equivalente e reati contro la P.A.

Confisca per equivalente e reati contro la PA

A

In tema di confisca per equivalente nell’ambito dei reati contro la p.a. è stata appositamente introdotta la norma di cui all’art. 322 ter c.p. con la l. n. 300 del 2000, poi modificata dalla l. n. 190 del 2012, che oggi stabilisce che, nei casi di condanna o patteggiamento per i reati di cui agli artt. 314-321, è prevista la confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.

PRIMA DEL 2012: MANCANZA DEL PROFITTO
In realtà, prima dell’intervento normativo del 2012, la norma in esame non conteneva (in tema di confisca per equivalente) il riferimento al termine profitto, applicandosi solo al prezzo del reato. Tale limitazione determinava l‘inapplicabilità di questo strumento a gran parte dei reati richiamati dall’art. 322ter c.p., in quanto in molti di essi l’utilità conseguita dal reo non è data dalla percezione di un compenso da parte di terzi come corrispettivo per l’esecuzione del reato (quindi di un prezzo), ma da un profitto.

CONFLITTO CON LA 231
Inoltre, tale norma entrava anche in conflitto con il d.lgs. n. 231/2001, nel quale per questo tipo di reati è prevista la confisca per equivalente nei confronti delle persone giuridiche, oltre che del prezzo anche del profitto, con conseguenza di ammettere in caso di condanna la confisca per equivalente nei confronti delle persone giuridiche ma non anche delle persone fisiche con esse concorrenti per lo stesso reato.

Ciò ha portato ad intervenire sulla norma, prima da un punto di vista interpretativo attraverso le pronunce delle Sezioni Unite, poi da un punto di vista correttivo da parte del legislatore, stante la non sempre univoca giurisprudenza in merito.
Peraltro, l’ordinamento italiano non esclude la possibilità di un’applicazione congiunta della confisca del prezzo e del prodotto del reato, dovendosi leggere la congiunzione disgiuntiva “o” (prezzo “o” profitto del reato) in senso inclusivo e non esclusivo, come endiadi esemplificativa di due possibili articolazioni di ingiusti vantaggi economici o utilità conseguiti dalla commissione di differenti titoli di reato (taluni reati si connotano per produrre un “prezzo”, inteso come corrispettivo per la loro commissione – ad es. la corruzione – mentre altri recano un “profitto” corrispondente al vantaggio da essi direttamente derivante – ad es. il peculato).

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[6] Confisca per equivalente e reati tributari

Confisca per equivalente e reati tributari

A

L’art. 12-bis del d.lgs. n. 74/2000 (introdotto nel 2015) ha esteso l’operatività dell’art. 322 ter c.p. anche ai reati tributari.

Si tratta di una disposizione che prevede una forma di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo e del profitto del reato e che ricalca il dettato dell’art. 322-ter c.p. [reati contro la PA]

PROBLEMATICITA’ DEL CONCETTO DI PROFITTO NEI REATI TRIBUTARI
Anche in tale ambito il concetto di profitto ha creato problemi.
Nei reati tributari, infatti, la** tradizionale e consolidata interpretazione giurisprudenziale del concetto di “profitto”, che si basa sul nesso di derivazione che deve sussistere tra illecito e il vantaggio, va applicata** non tanto ad un incremento della situazione patrimoniale del reo, quanto al mancato detrimento della stessa (risparmio di spesa) derivante dalla sottrazione a tassazione di un certo ammontare.
Il profitto, pertanto, traducendosi in un risparmio più che in un miglioramento patrimoniale, non può essere assoggettato a confisca diretta in quanto, da una parte, il valore sottratto (cioè l’imposta non corrisposta), essendo già presente nel patrimonio del reo, non può considerarsi “proveniente da reato”; dall’altra è impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra res (cioè il denaro risparmiato) e il reato.

SENTENZA ADAMI RISOLVE IL PROBLEMA DEL PROFITTO
Nella sentenza Adami (Cass. pen. Sez. Un. n. 18734 del 2013), la Cassazione ha chiarito come in tema di reati tributari il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente, sia costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di tributi, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario.

SENTENZA GUBERT SULLA NATURA DELLA CONFISCA NEI REATI TRIBUTARI
Le Sezioni Unite sono nuovamente intervenute sul tema cercando di chiarire non solo il concetto di profitto, ma anche la natura della confisca, diretta o per equivalente, avente ad oggetto denaro o altri beni fungibili derivanti dalla commissione di reati tributari. Nella sentenza Gubert (Cass. pen. Sez. Un. n. 10561 del 2014) la Cassazione, optando per una delle soluzioni alternative, ha accolto la nozione ampia di profitto, comprendente non solo i beni conseguiti per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza anche indiretta o mediata dell’attività illecita, arrivando a qualificare i risparmi di spesa come profitto derivante dal mancato pagamento del tributo.

COME STABILIRE SE IL DENARO COSTITUISCE PROFITTO?
In una più recente sentenza la Cassazione ha avuto modo di puntualizzare, inoltre, che «per stabilire se il denaro costituisce profitto (e cioè risparmio di spesa) del reato di omesso versamento dell’imposta (e dunque bene aggredibile in via diretta) occorre prendere in considerazione esclusivamente le disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento dell’imposta stessa, […] che potrà essere oggetto di sequestro diretto solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il pagamento dell’imposta che a quello, successivo, del sequestro e non potrà mai essere considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo al momento della scadenza, anche se non corrispondente all’imposta evasa nella sua interezza (così, per esempio, se alla data di scadenza del termine per il pagamento, il conto corrente ha una disponibilità liquida di €100,00 ed il debito tributario è pari ad €1.000,00, la somma di denaro che può essere sequestrata direttamente non potrà mai essere superiore ad €100,00, nemmeno se alla data del sequestro tali disponibilità dovessero essere aumentate fino a coprire tutto il debito perché per l’ammontare residuo il sequestro può essere concepito solo “per equivalente”)» [Cass. pen., sez. III, 14 aprile 2020, n. 12058].

CONFISCA NON OPERA PER CONTRIBUENTE CHE SI IMPEGNA A VERSARE
Il co. 2 dell’art. 12 bis prevede comunque che «la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta». Ciò rende evidente come la funzione della confisca tributaria sia essenzialmente mista, e che sulla funzione sanzionatoria prevalga in realtà quella recuperatoria (mirando essa non solo e non tanto a punire il reo, quanto al recupero dell’imposta evasa, a beneficio dell’Erario – a ben vedere, infatti, se veramente la funzione preminente della confisca fosse sanzionatoria, nulla impedirebbe il cumulo fra confisca – avente natura penale, e specificamente sanzionatoria – e pagamento delle imposte – fatto meramente recuperatorio).
Corollario della natura recuperatoria della confisca tributaria è che un eventuale pagamento dell’imposta evasa, eliminando in radice il profitto suscettibile di confisca (il risparmio di spesa), e cioè l’oggetto stesso sul quale avrebbe dovuto incidere la confisca, fa venir meno il presupposto legittimante il provvedimento ablatorio.
In tal senso la giurisprudenza ha affermato che il pagamento integrale del debito impedisce la confisca e impone la revoca del sequestro.
In caso di restituzione parziale del profitto, il sequestro preventivo e l’eventuale confisca vanno ridotti del relativo ammontare. Proprio in tal senso, l’art. 12-bis, co. 2, prevede l’inoperatività della confisca «per la parte che il contribuente si impegna a versare».

IN COSA CONSISTE L’IMPEGNO A VERSARE?
Tuttavia, è stata notata l’opacità del significato normativo della disposizione, dato che non risulta chiaro in cosa debba consistere tale “impegno”:
a) se debba avere carattere formale con l’amministrazione finanziaria;
b) se per produrre effetti nel procedimento penale possa essere anche solo unilaterale o se invece – come parrebbe logico – debba essere concordato in un accordo con l’amministrazione finanziaria, che quindi riscontri all’autorità giudiziaria penale l’intervenuto impegno del privato e la sua entità;
c) quale sia il termine ultimo entro il quale impegno a restituire possa intervenire;
d) se la prestazione restitutoria concordata possa essere adempiuta da un terzo garante o da un debitore ceduto.

Da ultimo, si segnala che il d.l. n. 124/2019 ha esteso la c.d. confisca allargata (su cui subito infra) a tutti i più gravi reati tributari.

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[7] Confisca allargata

La confisca allargata al 240 bis

A

La confisca allargata (originariamente concepita per contrastare la criminalità organizzata) è una fattispecie a carattere obbligatorio che è stata introdotta con l’art. 12 sexies del d.l. n. 306 del 1992, convertito in l. n. 356/1992 rubricato «ipotesi speciali di confisca». In virtù della riserva di codice del 2018, è stata introdotta nel codice penale nel nuovo art. 240-bis c.p.

INVERSIONE ONERE PROVA E RAPPORTO DI SPROPORZIONE
Si caratterizza per l’estrema ampiezza del provvedimento espropriativo, idoneo ad aggredire tutti i beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta dal destinatario della sanzione, nonché per l’inversione dell’onere della prova derivante dalla presunzione legislativa di illecita accumulazione delle disponibilità patrimoniali “sospette”: l’unico elemento significativo della fattispecie è il rapporto di sproporzione, che legittima la misura a meno che il condannato giustifichi la provenienza dei beni.

PRESUPPOSTI APPLICATIVI
Presupposti applicativi della misura in questione sono:
1) condanna o applicazione della pena su richiesta (c.d. patteggiamento), per uno dei gravi reati individuati dall’art. 240 bis, c.p.;
2) la titolarità o la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, di denaro, beni o altre utilità in capo al sottoposto, in valore sproporzionale rispetto al proprio reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o all’attività economica svolta, sempre che il soggetto non riesca a giustificarne la provenienza.

PRESUNZIONE IURIS TANTUM DI ILLECITA ACCUMULAZIONE
Attraverso la presunzione iuris tantum di illecita accumulazione, il provvedimento ablatorio incide su tutti i beni di valore economico non proporzionato al reddito o all’attività economica del condannato e dei quali questi non possa giustificare la provenienza, trasferendo sul soggetto, che ha la titolarità o la disponibilità dei beni, l’onere di dare un’esauriente spiegazione in termini economici della liceità della loro provenienza. Laddove non sia possibile confiscare i beni in questione è consentita la confisca per equivalente (co. 2).

NATURA DELLA CONFISCA ALLARGATA
Nonostante continuino a palesarsi dubbi in merito alla natura giuridica di tale forma di confisca, che sembrerebbe propendere verso una qualificazione in termini di pena, la giurisprudenza maggioritaria ribadisce che l’istituto è una misura di sicurezza atipica con funzione preventiva e dissuasiva, ovvero una misura che agisce nella ricorrenza di determinati presupposti e sulla base di una presunzione di ingiustificato arricchimento, che fa presumere una capacità criminale e una pericolosità sociale che legittima tale ablazione.

MANCANZA DEL NESSO DI PERTINENZIALITA’ TRA BENE E REATO OGGETTO DI CONDANNA
La presunzione di origine illecita dei beni di valore sproporzionato, con tutta evidenza, fa venir meno la necessità del nesso di pertinenzialità tra i beni e il reato oggetto di condanna. In tal senso, le Sezioni Unite hanno evidenziato che «il legislatore, nell’individuare i reati dalla cui condanna discende la confisca dei beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni dall’episodio criminoso singolo per cui la condanna è intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto» (Cass. pen. Sez. Un. n. 920 del 2003).

In relazione alla confisca allargata ex art. 240-bis c.p. la più recente giurisprudenza, consacrata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 33/2018, richiede la c.d. ragionevolezza temporale, sottolineando che la presunzione di provenienza illecita dei beni non potrebbe in ogni caso «operare in modo illimitato e indiscriminato, ma deve necessariamente essere circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale che consenta di operare un collegamento tra i beni e il fatto criminoso»; il requisito in esame supporta sotto un profilo indiziario la presunzione di illecito arricchimento, che tanto più si indebolisce tanto più il momento di acquisizione del bene si allontana dall’epoca di realizzazione del “reato spia”, al punto che l’eccessiva distanza temporale renderebbe «ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita».
Tale requisito risponde, in effetti, all’esigenza di evitare una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti — anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista — un monitoraggio patrimoniale esteso all’intera vita del condannato.

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9
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Confisca allargata e Confisca di prevenzione

A

La confisca allargata viene spesso accostata alla confisca di prevenzione, dato che esse hanno in comune i presupposti oggettivi e la finalità.
In realtà, nel primo caso i beni di valore sproporzionato sono sottratti in forza di una presunzione di illeceità che è fondata sull’accertamento processuale di una responsabilità penale per reati tipici ordinariamente generatori di disponibilità economiche illecite. Nel secondo caso, secondo l’orientamento della Cassazione, l’apprensione «persegue un più ampio fine di interesse pubblico volto all’eliminazione del circuito economico di beni di sospetta provenienza illegittima». Secondo le Sezioni Unite, pertanto, la confisca di prevenzione e la confisca allargata non presentano una medesima ratio ed i rispettivi contenuti precettivi non sono affatto sovrapponibili: «la confisca c.d. allargata è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità e alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o la propria attività economica, quella di prevenzione aggiunge in alternativa la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed impiego delle stesse».
Queste divergenze hanno indotto le Sezioni Unite a rigettare, per quanto concerne le misure di prevenzione, la tesi avallata da parte della giurisprudenza in tema di confisca allargata, che consente di tenere conto, ai fini dell’accertamento della sproporzione, dei debiti di attività lecita indebitamente sottratti al fisco (cioè dei proventi che, non essendo stati dichiarati, non risultano dalla dichiarazione dei redditi).
Al contrario, la giurisprudenza più recente ha invece esteso alla confisca allargata l’interpretazione pro reo sviluppata in materia di misure di prevenzione, in relazione alla delimitazione temporale del nesso di pertinenzialità.

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[8] Confisca urbanistica

Confisca urbanistica

A

La confisca urbanistica (art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2011) è uno strumento di repressione degli abusi edilizi.

APPLICABILITA’ DELLA CONFISCA
Il comma 2 della disposizione prevede l’applicabilità della confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite nell’ipotesi in cui sia sopraggiunta una sentenza definitiva del giudice penale che accerti che vi sia stata la lottizzazione abusiva. Il precetto, pertanto, non esige una sentenza di condanna ma solo l’accertamento in sede giudiziale dell’esistenza del reato in questione e della relativa responsabilità penale.

NATURA GIURIDICA: DALLA SANZIONE AMMINISTRATIVA ALLA CORTE EDU
L’ambiguo dato letterale ha indotto il costante orientamento giurisprudenziale ad attribuire a questa forma di confisca, natura giuridica di sanzione amministrativa obbligatoria e a ritenerla applicabile indipendentemente dalla sentenza di condanna, salvo il caso di assoluzione per insussistenza del fatto (la confisca poteva quindi essere disposta anche in caso di estinzione del reato, come anche nel caso di insussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito penale, ed addirittura nei confronti dei terzi acquirenti estranei al reato). Tale sistema si poneva in evidente contrasto con i principi fondamentali del diritto penale, in primo luogo quello di colpevolezza.

CASO PUNTA PEROTTI DEL 2007: PRIMO INTERVENTO CORTE EDU
È intervenuta così la Corte EDU, in primo luogo con due decisioni, rispettivamente del 2007 del 2009, entrambe relative al caso “Punta Perotti”, e poi con la sentenza “Varvara” del 2013.
Il caso iniziale con il quale è stato avviato il processo di rivisitazione in chiave costituzionale e convenzionale della normativa italiana è meglio conosciuto come “Sud fondi c. Italia” e scaturiva dalla tristemente nota vicenda degli ecomostri di Punta Perotti, oggetto di un lungo processo terminato con l’assoluzione di tutti gli imputati per difetto dell’elemento soggettivo dei reati loro ascritti. All’esclusione della responsabilità penale seguì in ogni caso la confisca obbligatoria di tutti i terreni abusivamente lottizzati e dell’imponente complesso immobiliare che nel frattempo era stato edificato su alcuni di essi. Di conseguenza, le società proprietarie dei terreni hanno presentato ricorso alla Corte EDU, che è intervenuta dapprima nel 2007 pronunciandosi sulla ricevibilità del ricorso, successivamente nel 2009 con la sentenza che si è pronunciata nel merito.
La questione verteva sulla contrarietà con l’art. 7 della CEDU della descritta disciplina italiana relativa alla confisca urbanistica, e la Corte di Strasburgo si è trovata dinanzi alla necessità di esaminare due distinte questioni. La prima riguardava la qualifica da ascrivere alla sanzione in esame, sottolineando i ricorrenti la natura penale della misura applicata, come tale rientrante nell’ambito applicativo del citato art. 7. In secondo luogo, ci si chiedeva se fosse possibile desumere dall’art. 7 la rilevanza del principio di colpevolezza, interamente violato da un’interpretazione come quella invalsa nel sistema italiano, dove si ammetteva l’applicazione della confisca urbanistica anche in assenza di una sentenza di condanna e nei confronti di terzi estranei al reato.
Il governo italiano sollevava la questione di irricevibilità nei confronti del ricorso, posto che conformemente alla costante giurisprudenza della Cassazione, la confisca deve essere considerata a tutti gli effetti una sanzione amministrativa e quindi fuoriuscire dall’ambito di applicazione dell’art. 7 CEDU.
Sul primo versante, la Corte EDU con la pronuncia del 2007 ha affermato che la confisca urbana è una pena a tutti gli effetti e in quanto tale deve sottostare al regime garantistico della Convenzione. La Corte, in particolare, interpreta l’art. 7, par. 1 (che ricalca il principio di legalità e quello di irretroattività della legge penale sfavorevole già presenti nell’ordinamento nazionale ex artt. 25 Cost. e 1 e 199 c.p.) in senso ampio, applicandolo non solo agli illeciti e alle sanzioni “formalmente” definiti come penali (dall’ordinamento di provenienza), ma anche a quelle che, in base ai c.d. Engels criteria (v. più sopra), possono essere considerate come “intrinsecamente” penali (o sostanzialmente penali), perché dotate di caratteri e finalità che ricalcano le disposizioni penali. La Corte EDU, aderendo ad una concezione autonomistica e rivendicando un potere autonomo di qualificazione della nozione convenzionale di pena e di accusa penale, pone così fine ad un grave caso di frode delle etichette, riconoscendo la natura penale della confisca urbanistica e riaffermando la applicabilità di una serie di principi prettamente penalistici, in primis quello della colpevolezza, che i giudici italiani avevano escluso.
Ha ritenuto così contrastante con l’art. 7 la disciplina italiana, laddove ne ammette l’applicazione in danno del soggetto prosciolto perché il fatto non costituisce reato. È evidente come l’atteggiamento della Corte sia basato sulla necessità di garantire l’effettività dei principi convenzionali, per evitare che la prassi dei diversi ordinamenti nazionali possa pregiudicare il riconoscimento di diritti fondamentali.
Nel decidere, i giudici di Strasburgo hanno sostenuto che l’erogazione della confisca non è necessariamente collegata ad una sentenza di condanna, ma che non si possa comunque prescindere dal necessario accertamento della commissione dell’illecito penale da parte dell’imputato e che la verifica dell’illecito debba avvenire nel corso di un procedimento penale.

CASO PUNTA PEROTTI DEL 2009: SECONDO INTERVENTO CORTE EDU
Con la sentenza del 2009 la Corte EDU ha stabilito che «dal momento che la base giuridica del reato non rispettava i criteri di chiarezza, accessibilità e prevedibilità, era impossibile prevedere che sarebbe stata comminata una sanzione […] di conseguenza, la confisca in questione non può ritenersi come prevista dalla legge, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Essa si traduce quindi in una sanzione arbitraria. Pertanto, vi è stata violazione dell’art. 7 della Convenzione» (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. e a. c. Italia).

Sul versante nazionale la giurisprudenza si è adeguata ai principi esplicativi della sentenza esaminata, richiedendo ai fini della applicazione della confisca l’accertamento tanto dei profili oggettivi quanto di quelli soggettivi del reato. Diversa, tuttavia, risulta l’ipotesi in cui non si fosse pervenuti ad una pronuncia di condanna nei confronti degli autori della violazione per intervenuta prescrizione dei reati. In questi casi, infatti, il principio giuridico espresso dalla sentenza Sud Fondi è rimasto pertanto pressoché inapplicato, dato che la prescrizione del reato non fa venir meno l’accertamento sostanziale dello stesso.

CASO VARVARA DEL 2013: TERZO INTERVENTO DELLA CORTE EDU
È quindi intervenuta nuovamente la Corte EDU con la sentenza Varvara c. Italia. La Corte di Strasburgo, ribadita la natura sostanzialmente penale di tale misura e riconoscendo l’applicabilità a questa del principio di legalità, ha affermato un’interpretazione dell’art. 7 CEDU in base alla quale l’applicazione di una sanzione penale possa dirsi legittima solo a seguito di una sentenza di condanna «che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò la punizione non avrebbe senso. Sarebbe infatti incoerente esigere da una parte, una base legale accessibile e prevedibile, e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata» (Corte EDU, 20 ottobre 2013, Varvara c. Italia).

LE SUCCESSIVE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Tali precedenti hanno condotto ad un’immediata proposizione di due distinte questione di legittimità costituzionale. La prima (del Tribunale di Teramo) sollecitava una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, T.U. edilizia così come interpretato dalla giurisprudenza italiana, per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (come interpretato dalla Corte EDU), «nella parte in cui consente che l’accertamento nei confronti dell’imputato del reato di lottizzazione abusiva – quale presupposto penale dell’obbligo di confisca urbanistica – possa essere contenuto anche in una sentenza che dichiari il reato estinto per intervenuta prescrizione». La seconda (Cass. pen. n. 20636 del 2014) andava invece nella direzione opposta, richiedendo alla Corte costituzionale l’attivazione dei c.d. controlimiti. Ciò in quanto la confisca urbanistica, come risultante dall’interpretazione della Corte EDU, si poneva in contrasto con «gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, co. 1, Cost., i quali impongono che il paesaggio, l’ambiente, la vita e la salute siano tutelati quali valori costituzionali oggettivamente fondamentali, cui riconoscere prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprietà».
La Corte costituzionale decide «di non decidere», dichiarando inammissibili entrambe le questioni.
In merito all’ordinanza della Cassazione, in particolare, la questione è, in primo luogo, inammissibile poiché il giudice a quo non avrebbe dovuto dubitare direttamente della costituzionalità della norma che disciplina la confisca urbanistica, ma piuttosto della legge di ratifica della Convenzione, nella parte in cui consente l’ingresso nell’ordinamento di una norma che stride con alcuni principi costituzionali. In secondo luogo, il rimettente avrebbe errato nella misura in cui sarebbe partito dal presupposto che, una volta intervenuta la sentenza Varvara, risulti ormai interdetto al giudice interno applicare la confisca urbanistica riguardo ad un reato prescritto. Secondo la Consulta, infatti, la Corte EDU nella sentenza Varvara avrebbe solo voluto ribadire la necessità «che il giudice penale accerti la responsabilità delle persone che subiscono la confisca (l’imputato o il terzo acquirente di mala fede), attenendosi ad adeguati standard probatori e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare conto dell’effettivo apprezzamento compiuto», anche se poi formalmente perviene ad un proscioglimento per intervenuta prescrizione.
Inoltre, secondo la Corte costituzionale, le pronunce di Strasburgo sono vincolanti per il giudice interno solo se espressione di una giurisprudenza consolidata: il principio enunciato nella sentenza Varvara, pertanto, essendo un precedente isolato, non può condurre allo stravolgimento di un’interpretazione interna costante e consolidata.
IN BREVE:
La Corte costituzionale, quindi, sminuisce sia la portata interpretativa che quella applicativa della sentenza Varvara, restringendo da un lato la sua valenza antitetica rispetto al diritto vivente nazionale, dall’altro il suo valore vincolante, non essendo essa espressiva di un consolidato 257 orientamento della Corte EDU (Corte cost., sentenza 26 marzo 2015, n. 49).

IL VERDETTO DI AMMISSIBILITÀ DELLE SEZ. UNITE LUCCI
A pochi mesi di distanza intervennero così le già menzionate Sezioni Unite Lucci (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci) che, oltre ad avere risolto i residui dubbi inerenti la nozione di profitto del reato, hanno altresì confermato il principio per cui la confisca non presuppone un giudicato formale di condanna, dal momento che, alla luce delle pronunce della Corte EDU Sud Fondi e Varvara nonché dell’interpretazione alle stesse attribuita dalla sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale, è sufficiente che la responsabilità da cui origina il provvedimento di confisca sia stata accertata almeno con una sentenza di condanna, senza bisogno della formazione di un giudicato di condanna; in altre parole, le Sezioni Unite hanno ammesso la possibilità di comminare la confisca anche in caso di prescrizione del processo, purché intervenuta successivamente almeno alla condanna in primo grado.

LA CORTE EDU CONFERMA LA CASSAZIONE
A fronte di queste sentenze riaffermative del diritto vivente nazionale, la Corte EDU, con la sentenza G.I.E.M. c. Italia, ha stabilito che: «[…] qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato» [Corte EDU, Gr. Ch., 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. e a. c. Italia]

INTERVENTO DEL LEGISLATORE NEL CPP
Peraltro, il legislatore interno, ritenendo concluso il dibattito sul punto, aveva già cristallizzato l’orientamento delle Sezioni Unite Lucci nell’attuale art. 578 bis c.p.p., ai sensi del quale: «Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’art. 240 bis c.p. e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato».

Per quanto l’art. 578 bis c.p.p. non faccia espressamente riferimento alla confisca urbanistica, è pacifico che essa debba ritenersi ricompresa nella locuzione “altre disposizioni di legge”. Sul punto, giova rilevare come, nonostante tale norma si riferisca ad una vasta serie di ipotesi di confisca, nella prassi, detta regola troverà applicazione principalmente in materia di confisca urbanistica, visti i brevi termini di prescrizione propri della lottizzazione abusiva.

EFFETTO DELL’ELIMINAZIONE DELLE OPERE OGGETTO DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA
Infine, sul versante del riconoscimento del principio di proporzione, la giurisprudenza nazionale tende ormai ad affermare che, in tema di lottizzazione abusiva, l’effettiva eliminazione di tutte le opere eseguite e il rispristino dello stato preesistente, rendono superflua ogni confisca [Cass. pen., sez. III, 22 aprile 2020, n. 12640].

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